Pochi avevano dubbi che dal direttore generale della Banca d’Italia, ieri in Parlamento, sarebbe giunto un endorsement totale al decreto di riforma delle Popolari. Anzi: Salvatore Rossi – un economista senza esperienza personale di vigilanza bancaria, al pari del governatore Ignazio Visco – ha confermato che via Nazionale non ha eccepito in nulla al blitz di Palazzo Chigi, fortemente suggerito dalla Bce di Mario Draghi. Anche nel merito Rossi non ha portato elementi nuovi sull’approccio del provvedimento: le 11 maggiori Popolari vanno trasformate in Spa perché sono hanno mla stessa dimensione di altri gruppi bancari del Paese; e soprattutto perché va rimosso “l’handicap” della governance cooperativa (voto capitario e limite di possesso votante per i grandi investitori).
La diagnosi può non essere contestabile: le Popolari italiane – al pari di tutte le banche del mondo all’exit dalla grande crisi – hanno bisogno di essere ricapitalizzate. La ricetta segue però in termini spicci e univoci: solo il mercato può migliorare i “ratio” patrimoniali di Ubi, Banco Popolare, Bpm, Bper, Creval, Sondrio, Vicenza, Veneto Banca, Etruria (commissariata), Bari e Volksbank (Bolzano-Bresannone con Marostica). La ricapitalizzazione per via cooperativa (soci del territorio) è dunque esclusa in partenza. Via Nazionale riparte dunque dall’esperimento (non riuscito) di Andrea Bonomi e dei suoi partners di private equity in Popolare di Milano, ma soprattutto dalle presenze diffuse – anche se non sempre comunicate – di grandi investitori istituzionali (ad esempio, il fondo sovrano Norges). Questi ultimi – dal canto loro – hanno puntato quote minime dei loro portafogli Europa sulle Popolari italiane quasi unicamente con finalità speculative: può essere indelicato sottolinearlo, ma l’aspettativa era quella realizzata infine il 20 gennaio scorso dal decreto Renzi-Padoan, che non ha caso ha provocato scossoni al listino oggi all’attenzione di Consob e magistratura.
UniCredit e Intesa Sanpaolo sono governate da nuclei stabili cui partecipano in misura più o meno ampia Fondazioni bancarie: gli unici investitori istituzionali nazionali capaci di far ingresso in una grande bana come in Piazza Cordusio il fondo sovrano Aabar (Abu Dhabi) o il colosso assicurativo tedesco Allianz. Chi potrà garantire un minimo di presidio alle nuove “Popolari Spa”, soprattutto se daranno luogo a fusioni, come auspicato ieri anche da Rossi? Il modello della “public company” torna a essere riproposto tale-quale: nonostante la crisi del 2008 abbia sollevato più di un dubbio sull’efficienza e sulla sicurezza di grandi imprese gestite da top manager controllati a distanza da investitori orientati al profitti finanziario di breve periodo.
Non più tardi dell’anno scorso, l’Economist mise su una sua preoccupata copertina un gigantesco masso nero: simbolo di Blackrock, leader dei fondi giganti ormai incontrollabili da qualsiasi supervisione. È a questi soggetti che le autorità creditizie italiane voglio consegnare un pezzo importante del sistema bancario? (Ed è meglio evitare equivoci: l’interesse di alcuni grandi fondi per l’Istituto centrale delle banche popolari è legato unicamente alla partecipazione in Cartasì, gestore di carte di credito).