Nasce il PdL, il Partito degli italiani, come qualcuno lo ha chiamato. Comunque sia la fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale dovrebbe portare alla sezione italiana dei Popolari europei. Chissà cosa ne penserebbe il padre del Partito Popolare, don Sturzo.
Parlare di lui non è pretestuoso visto il 90esimo anniversario dell’appello con cui, il 18 gennaio del 1919, il sacerdote siciliano diede vita al Ppi. Per l’occasione c’è stato chi ne ha rivendicato la “figliolanza”, chi ha rimpianto la defunta Balena bianca e chi ha accusato Sturzo di non aver compreso la politica moderna.
Questi ultimi sembrano non aver letto nemmeno un rigo di quanto scritto dal fondatore del Partito popolare. Se lo avessero fatto non avrebbero potuto non sostenerne la profonda modernità, soprattutto per quanto riguarda l’accettazione del sistema democratico e di quella organizzazione politica che va sotto il nome di “partito”. Considerando che Papa Pio XII riconobbe nel 1944 la democrazia come la migliore forma di governo, e che Rosmini – tra i più all’avanguardia – vedeva nella formazione dei partiti il germe della divisione della società, quella di don Sturzo fu un’intuizione non affatto scontata.
Per lui il partito non è un corpo sociale che si dilata nei gangli del potere – come lo sarà la Dc di Fanfani -, ma l’interlocutore di istanze e interessi di differenti realtà sociali, cui è chiamato a dare voce sul piano elettorale e parlamentare. Un partito pensato similmente ripropone quanto oggi, specie dopo Tangentopoli, è considerato una bestemmia: il “collateralismo”. Scriveva a tal proposito Sturzo: «Un partito non s’improvvisa, è di lenta formazione, raccoglie forze mano a mano che si alimenta delle aspirazioni, degli interessi e dei bisogni dei gruppi, famiglie e correnti» (Chiesa e Stato, ed. Laterza, p. 94).
Se pensiamo alla precarietà degli schieramenti politici degli ultimi quindici anni, ai partiti che nascono con il fondersi delle proprie segreterie o per capriccio dei leaders, non risulta fuori luogo il giudizio del primo cittadino di Caltagirone. La partitocrazia che ha caratterizzato la nostra vita democratica, con lo strascico di clientelismo e corruttela che ben sappiamo, è figlia di una concezione di politica che don Sturzo ha da sempre combattuto. Una concezione per cui, ad un certo punto, il cittadino medio vuole garantito dallo Stato un posto da usciere nella pubblica amministrazione. Questa è il vero lascito del fascismo alla Repubblica: «Statalismo soffocante, rosso invece che nero; ma statalismo. Tutto ciò che non disturba i sonni dell’italiano medio, che sarebbe felice se lo stato potesse togliergli le preoccupazioni della vita» (Contro lo statalismo, Rubettino, pp. 62-63).
Il prete siciliano metteva in guarda da quella forma di statolatria per cui, come aveva già scritto un secolo prima Tocqueville, gli uomini si aspettano che i pubblici poteri sollevino dalla pena del vivere. Non è così distante dai nostri giorni. Basti pensare all’appello alla “pietà” del legislatore contemporaneo perché riconosca il “diritto” ad una morte dignitosa. È, in fondo, una concezione religiosa, sebbene tinteggiata con i colori della laicità, che vede nella fede una concorrente. Soprattutto laddove si formano le coscienze e si manifesta un intento pedagogico: la scuola.
Scriveva Sturzo sulla libertà d’educazione: «Anche contro di essa si aderge lo Stato moderno: lo Stato laico latino, lo Stato di prima della guerra. Ciò avviene per doppia conseguenza; una logica: dalla concezione panteista dello Stato sorge e deriva il concetto dello Stato unico educatore e insegnante, che deve a sua immagine e somiglianza creare i cittadini; l’altro concetto, politico: la difesa che lo Stato laico opera contro l’influenza religiosa, che esso rappresenta come potere nemico, nella gelosia di un predominio morale che non gli spetta» (p. 44). Il tema della libertà d’insegnamento è ancora scottante, perché aperto. Destra e sinistra continuano a ignorarlo, eppure risulta essere centrale se si pensa all’emergenza educativa che attraversa i nostri tempi.
Sturzo risulta dunque attualissimo. Tutt’altro che “arretrato”. I suoi scritti dovrebbero fare compagnia ai tanti che, in Italia come in Europa, cercano di costruire una grande famiglia popolare e liberale, in alternativa a quelle concezioni confessionali del potere che affidano alla politica – o alla tecno scienza, che sembra ridurre al suo servizio i poteri legislativo e giudiziario – il compito di estirpare il male e la sofferenza dal genere umano.
In una fase della storia della nostra Repubblica, così povera dal punto di vista culturale, è più che mai urgente riscoprire il contributo di pensiero del padre del Partito Popolare. E rilanciare il suo appello “ai liberi e forti”. Che il PdL voglia farsi avanti?
(Francesco Chiesa)