Le Considerazioni finali esposte dal Governatore della Banca d’Italia il 30 maggio scorso all’Assemblea dei partecipanti induce a qualche rilievo esegetico e alla formulazione di alcuni interrogativi in relazione alla nota vicenda della riforma dell’Istituto centrale, sulla quale ci si è più volte intrattenuti su queste pagine.
Il Governatore attribuisce al Parlamento la definizione della riforma dell’assetto proprietario: qui, come altrove, è il caso di intendersi sulle parole, perché se è vero che le Camere hanno convertito in legge il d.l. n. 133/2013 – in un contesto di asperrima polemica e di feroce contrasto tra le forze politiche di minoranza e quelle di opposizione, che ha condotto la Presidente della Camera bassa alla applicazione della famigerata “ghigliottina” – è altrettanto vero ed è ancor più notevole che la riforma sia stata concepita e portata a immediato effetto dal Governo in perfetto accordo con la Banca d’Italia e, di più, su iniziativa di questa. Scelta tutt’altro che indifferente non solo dal punto di vista politico, che qui non interessa, bensì anche in prospettiva giuridico-costituzionale.
Il riferimento poi all’opinione pubblica distolta dagli obiettivi conseguiti a causa della complessità degli aspetti tecnici, mentre sembra non tener conto del dibattito critico – ancorché non così ampio e diffuso come pure sarebbe stato auspicabile – che ha coinvolto esperti di varie discipline (e i cui quesiti non hanno trovato benché minima eco diretta presso il Governo e la Banca d’Italia) e dà per genericamente realizzati i risultati di un mutamento strutturale che solo nel corso degli anni potrà essere apprezzato in tutti i suoi aspetti, sarebbe stato certo più appropriato se avesse considerato che le grandi questioni oggettivamente poste dal d.l. n. 133/2013 (ad esempio, il rapporto tra l’abrogazione dell’art. 20 R.D. n. 375/1936 e la qualificazione della condizione giuridica relativa alla detenzione delle quote del capitale da parte di privati prima di tale abrogazione o, ancora, la precisa definizione del regime giuridico delle riserve auree) sono state reiteratamente schivate dalle fonti ufficiali (talvolta con toni persino stizziti).
Ma certo l’opinione pubblica – più ancora quella qualificata – non potrà essere tanto distratta da non aver percepito:
Che l’attuale “modello di partecipazione” è assolutamente diverso da quello previgente, nient’affatto “basato sull’industria finanziaria”: in prospettiva giuridica – che dovrebbe presumersi oggetto, in parte qua, delle Conclusioni del Governatore – antecedentemente all’entrata in vigore del d.l. n. 133/2013 le quote del capitale dell’Istituto centrale, come si è avuto occasione di illustrare in questa sede, potevano appartenere esclusivamente ai soggetti indicati nell’art. 20 R.D. n. 375/1936, tutti gravitanti nell’orbita del diritto pubblico e per ciò stesso non in quella dell’industria finanziaria (che sarebbe peraltro nozione da meglio connotare nei suoi termini soggettivi, oggettivi e finalistici). Deve credersi, allora, che Visco volesse riferirsi alla situazione prodottasi nel ventennio che separa il d.l. n. 133/2013 dalla stagione delle privatizzazioni dei suddetti soggetti, alla quale non seguì però la pur doverosa restituzione allo Stato delle quote del capitale di Bankitalia: meglio sarebbe valso, allora, dire con chiarezza che il ridetto d.l. ha fornito ai partecipanti di fatto il titolo giuridico del quale erano privi;
Che l’evocazione dell’assetto di “altre importanti banche centrali” è privo di ogni valore euristico fin quando resti generico e indeterminato. Resta fermo, peraltro che i profili di illegittimità non sarebbero certo sanati da espedienti comparativi;
Che l’evocazione apodittica di anacronismi e anomalie maturate nel corso dei decenni passati meriterebbe di esser meglio esplicitata, dal momento che negli ultimi due decenni, come si è detto, l’anomalia è consistita proprio nella partecipazione di soggetti privati al capitale della Banca, laddove non è stato ancora debitamente spiegato quali sarebbero i vantaggi derivanti dalla innovazione (recte: legittimazione) dell’assetto proprietario nelle forme e con le modalità del d.l. n. 133/2013 e, soprattutto, quali ne siano gli scopi;
Che “l’impossibilità per i partecipanti di influire sull’esercizio delle funzioni istituzionali”, oltre a non sussistere nei termini assoluti con i quali viene presentata (potendo certamente i quotisti incidere almeno sull’assetto organizzativo della Banca centrale), interroga circa la ragione e il titolo di tale partecipazione, acquisita, peraltro, mediante attribuzione a titolo gratuito e contestuale depauperamento della finanza pubblica;
Che la limitazione dei diritti economici e patrimoniali dei partecipanti, espressamente riferita al metodo di distribuzione dei dividendi, non è certo tale da implicare la loro esclusione dalle riserve statutarie valutarie e auree: non soltanto, infatti, non si rinviene alcuna espressa disposizione di qualificazione e di disciplina di tali riserve (benché ne fosse proposta l’introduzione nel corso dei lavori della competente Commissione permanente del Senato in occasione del procedimento di conversione del d.l. n. 133/2013), ma, più ancora, le quote del capitale sono rappresentative anche dell’intero patrimonio di Palazzo Koch e, dunque, altresì delle riserve auree: circostanza che pare sottesa alla disciplina della cessione delle quote eccedenti il limite del 3%, introdotto dal d.l. n. 133/2013.
A questi nodi – e soprattutto a quello, davvero centrale, della ratio della riforma – va ad aggiungersi la contraddizione relativa al “costo” della rivalutazione, che non è affatto nullo e neppure tale da non aver comportato alcuna alterazione al patrimonio complessivo.
La pervicace ripetizione, nelle Considerazioni finali, di affermazioni solo assertivamente contrarie non ne rafforza l’efficacia e rivela invece (forse) imbarazzo: vale, insomma, piuttosto come una fin de non recevoir opposta (…stat pro ratione voluntas…) agli argomenti, normativi, in primo luogo, e poi scientifici e di libera critica, da più parti formulati.
Non resta allora che accennare nuovamente, a mo’ di promemoria, ai dati contro i quali si infrangono le Considerazioni.
La rivalutazione del capitale (mai sottoscritto dagli attuali partecipanti, che lo acquisirono [illegittimamente] in esito alla privatizzazione delle banche di interesse nazionale e delle casse di risparmio: il “vecchio” capitale di 300 milioni di lire italiane era stato costituito dallo Stato, allorché, nel 1936, aveva liquidato i precedenti azionisti privati) è stata eseguita portandovi a incremento le riserve statutarie, frutto – come ha ripetutamente attestato lo stesso Governatore, il quale pure continua, contraddittoriamente, a invocare la loro “funzione pubblica” – dell’esercizio delle muneraconfidati all’Istituto centrale.
Come può sostenersi, allora, che tale incremento di valore non abbia comportato oneri per lo Stato e non abbia inciso sul patrimonio complessivo dell’Istituto centrale?
Quanto al patrimonio, del resto, l’aggettivo (complessivo) è poco meno di una “foglia di fico”: la somma del capitale e delle riserve sarà pure rimasta immutata, non però la composizione qualitativa del patrimonio: ed è questo, non il mero dato contabile, che rileva in sede di valutazione dell’assetto proprietario della Banca.
E del resto la tesi della neutralità finanziaria dell’operazione è ulteriormente esclusa dal disposto dell’art. 4, co. 6, d.l. n. 133/2013, in forza del quale l’Istituto di Via Nazionale “per favorire il rispetto dei limiti di partecipazione al proprio capitale”, può “acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime”, ovviamente pagandole con le proprie risorse. Previsione di tale “delicatezza” da essere stata affiancata, in sede di conversione, da una clausola che fa obbligo a Via Nazionale di riferire “annualmente alle Camere in merito alle operazioni di partecipazione al proprio capitale in base a quanto stabilito dal presente articolo”.
Ecco, dunque, un ulteriore onere per le finanze pubbliche, peraltro contrastante con il divieto europeo di erogare aiuti di Stato: rilievo puntualmente formulato dalla Bce, oggetto, poi, di una richiesta di chiarimenti della Commissione di Bruxelles, che successivamente, con motivazioni che lasciano alquanto perplessi, ha deciso di non procedere oltre.
La rassicurazione del Governatore circa l’uso di tale “facoltà solo se necessario e con modalità tali da non comportare l’assunzione di rischi di perdite” nulla toglie al significato sistematico della previsione normativa e non limita la concretezza del fattore di impoverimento dell’erario.
Ma il più radicale depauperamento è causato dall’approntamento, mediante il d.l. n. 133/2013, del titolo (costituzionalmente illegittimo) che consente ai quotisti di disporre delle riserve auree, sulle quali, pur in carenza di fondamento normativo, tantomeno specifico, la Banca d’Italia afferma di avere un diritto dominicale: e ciò sia, direttamente, mediante la cessione delle proprie partecipazioni – il cui valore, conformemente alle dinamiche di mercato, verrà stabilito tenendo conto anche di tali riserve – sia, indirettamente, tramite la negoziazione delle proprie azioni.
Il tema – lo si è reiteratamente e per più aspetti sottolineato – è di particolare gravità, ancorché confinato, nelle Considerazioni, a brevissimi cenni, la cui laconicità è ben lungi dal diradare i profondi dubbi sull’effettivo orientamento causale delle scelte compiute con la riforma.
All’opposto, appare chiaro che l’esperimento di un ente pubblico partecipato quasi totalitariamente da privati e titolare di funzioni essenziali e strategiche per il Paese beneficia i quotisti, che possono giovarsi del “valore realizzabile dalla vendita delle quote” – sul quale sostiene sibillinamente il Governatore che si sarebbe “acquisita chiarezza” (salvo non fare neppure cenno agli esiti di tale chiarificazione) – e della “prospettiva di scambi di mercato” (che conferma, quindi, il rilievo già svolto circa l’aderenza degli scambi medesimi alle ordinarie logiche di mercato e, quindi, alla quantificazione del valore anche secondo il parametro delle riserve auree) per “includerle nel patrimonio di vigilanza delle banche e delle assicurazioni, con potenziali, contenuti, effetti positivi sull’offerta di credito”.
In altri termini, una garanzia basilare della sovranità nazionale muta in garanzia di affidabilità degli istituti di credito e assicurativi: gli italiani, deprivati così di un “cespite” strategico per la loro indipendenza, possono forse contare su una qualche futura e comunque limitata “apertura di credito”.
Nessun serio lume si irradia dalle dichiarazioni del Governatore, dalle quali è assente anche ogni riferimento ai proventi fiscali che deriverebbero dalla rivalutazione delle quote di partecipazione, a ulteriore dimostrazione della debolezza dell’argomento, sulla quale ci si è già in precedenza soffermati. Sembra allora che la causa legis stia più nel non detto che nelle Considerazioni, dalle quali era lecito attendersi ben altro argomentare.
L’attesa delusa giustifica, essa sì, la domanda su chi abbia voluto distrarre chi e per quale ragione.