Possiedono entrambi delle case editrici, dei giornali, delle televisioni e una squadra di calcio di serie A. Hanno fatto fortuna partendo dalla pubblicità. Vantano solidi agganci nel mondo bancario e dell’alta finanza. Sono “piacioni” e ottimisti. Li accomuna l’indistruttibile vocazione imprenditoriale. Gli piace far sapere che lavorano 20 ore al giorno per il bene delle loro aziende e naturalmente del Paese tutto. Per un periodo sono stati anche a fianco in azienda, benché non esattamente al medesimo livello: uno era il boss e l’altro l’assistente. Erano pure compagni di casacca nelle partite di calcetto che non mancano mai nelle ditte dove bisogna “motivare” i manager e “fare squadra”. Uno si chiama Silvio Berlusconi, 80 anni, l’altro Urbano Cairo, 60.
Dicono che Cairo sia l’imprenditore della pubblicità italiano che più assomiglia al Cavaliere, quello che ne ha imparato meglio lo stile, l’abilità, l’ambizione, la faccia tosta. E il gusto delle imprese impossibili: Berlusconi ha inventato la tv commerciale dal nulla e in tre mesi, nel 1994, si è improvvisato presidente del Consiglio; Cairo, dopo una lunga gavetta tra Publitalia e Mondadori, ha messo le mani sul Corriere della Sera contro tutte le previsioni e i poteri, quelli deboli e soprattutto quelli forti. Non per nulla Cairo si è conquistato il soprannome di “Berluschino”, non si sa quanto gradito: il “Berluschino” per eccellenza è il fratello minore di Silvio, Paolo, che non brilla per le doti imprenditoriali. Ogni volta che raccoglie l’appellativo, il patron di La7, del Torino, della Rcs, della Cairo pubblicità tocca ferro, e forse anche qualcos’altro: solo uno con le palle d’acciaio poteva riuscire a tagliare i rimborsi spese dei giornalisti del “Corrierone”.
La mano cairota è corsa ai ferrei gioielli di famiglia anche ieri, quando ha letto la prima pagina del quotidiano romano Il Tempo. Luigi Bisignani, giornalista radiato dall’Ordine dopo la condanna nel processo Enimont, iscritto alla P2 (come del resto il Cavaliere), faccendiere e grande costruttore di scenari più o meno verosimili, scrive in prima pagina che “il Berluschino sogna in grande”: toccherebbe a lui l’eredità di guidare il centrodestra. Cairo sarebbe “il nuovo piccolo Trump che può riunire moderati e infuriati”.
Le suggestioni, in effetti, non mancano. Silvio smobilita, in politica ha perso il tocco magico, non riesce a vendere il Milan nemmeno ai cinesi, non ce la fa a smarcarsi dalla coppia Salvini-Meloni. Invece Cairo è in grande spolvero, ha il più forte goleador degli ultimi 10 anni, possiede il tocco di Re Mida che trasforma tutto in oro, e conta su una fama di tagliatore di teste e di sprechi che potrebbe tornargli utilissima in un’eventuale campagna elettorale per prendere voti ai moderati e pure a quella parte di grillini delusi dalla disarmante incapacità dei loro rappresentanti di cambiare davvero le cose. Urbano Cairo avrebbe pure la lingua sciolta per competere con Matteo Renzi e il “physique du rôle” per opporsi alla tendenza al sovrappeso dell’ex premier.
Bisignani manda messaggi in bottiglia, lancia segnali, suggerisce ipotesi, dipinge scenografie futuriste. L’operazione di lanciare Cairo ha un risvolto della medaglia: quello di bruciare l’eventuale delfino, esattamente come ha fatto pochi giorni fa Berlusconi con Luca Zaia dicendo che il governatore veneto sarebbe un buon premier. Per questo il padrone del Corriere fa gli scongiuri. Ma la scaramanzia prevale anche guardando alla fine che hanno fatto i presunti eredi del Cav: Fini, Alfano, Parisi. Cairo non ha alcuna intenzione di finire nel cimitero dei delfini mancati.