Spesso, nei momenti di crisi, accade che si guardi al passato senza lucidità, che si ammantino i giorni andati di una positività non veritiera. I tempi trascorsi vengono scoloriti delle negatività dell’epoca, per assumere sembianze diverse e irrealistiche. Le vecchie asperità vengono confuse con le pari amenità, sino a essere contrapposte con le rigidità del presente. Tutto è impiegato per invocare un benevolo “ritorno al passato”.
La considerazione non è nuova. Un’esperienza analoga accadde finanche al popolo d’Israele. Dopo essere stati liberati dalla schiavitù del Faraone, per essere condotti nella terra promessa sotto la profetica guida di Mosè, anche gli israeliti subirono le ammiccanti suggestioni del passato. Stretti dalle tribolazioni del deserto, essi cominciarono a rimpiangere i tempi della schiavitù in Egitto, in cui, se non altro, potevano nutrirsi gratuitamente.
Un simile vizio di prospettiva pare ora rinvenibile nel raffronto fra i limiti del vigente sistema elettorale («Porcellum») e i vantaggi di quello precedente («Mattarellum»). Alla luce degli effetti perversi provocati dal primo sulle elezioni del febbraio del 2013, ricordati su queste pagine da Stelio Mangiameli, si è iniziato a travisare i meriti del secondo, sino a proporne il ripristino.
Eppure, proprio il «Mattarellum» è stato all’origine di quell’instabilità e frammentazione del sistema, che ha caratterizzato il primo decennio della Seconda Repubblica. Proprio quel modello ha offerto le condizioni partitiche sia per il ribaltone del primo Governo Berlusconi (XIII legislatura), sia per la crisi del primo Governo Prodi (poi rimpiazzato dai Governi D’Alema e Amato nella XIV legislatura), sia, infine, per la lunga stasi che ha segnato il secondo e terzo Governo Berlusconi (XV legislatura).
All’origine di una simile distorsione prospettica non c’è solamente la superbia razionalistica di chi confida nell’ingegneria istituzionale e nell’effetto taumaturgico delle relative riforme. E’ noto, d’altro canto, che non esiste alcun nesso automatico di causa-effetto fra sistema elettorale e sistema politico, nel senso che gli esiti di ogni riforma sono condizionati sia dallo stato del sistema dei partiti, sia dalle caratteristiche della forma di governo; sicché un nuovo assetto maggioritario di per sé non può produrre un formato bipolarismo nazionale.
Più ancora, all’origine del prospettato «ritorno al Mattarellum» c’è la sottovalutazione di quelle questioni di stretta meccanica elettorale, che hanno sancito il fallimento del relativo sistema. Quest’ultimo presentava una dinamica perversa, apparentemente volta a favorire l’unità politica delle singole coalizioni elettorali e, tuttavia, tale da fomentare la tensione disgregatrice fra le relative forze aderenti.
Il sistema era improntato a una sorta di modello “maggioritario distorto”, presentando, al contempo, un’impostazione in senso maggioritario e un correttivo proporzionale. Le inevitabili alterazioni del sistema politico e della rappresentanza parlamentare, di conseguenza, derivavano dalla permanenza nel medesimo impianto di una siffatta antinomia di logiche elettorali: quella maggioritaria, tesa ad aggregare le diverse forze politiche in blocchi omogenei, onde impedire una frammentazione del sistema; quella proporzionale, al contrario, volta ad accrescere l’identità elettorale di ciascun partito e, pertanto, ineluttabilmente destinata a disgregare quell’unità d’intenti forzosamente (e virtualmente) raggiunta dalle coalizioni d’appartenenza.
L’incapacità di quel meccanismo rappresentativo a produrre unità politica, inoltre, era insita nella contrapposizione fra le diverse concezioni di democrazia rappresentativa egualmente rinvenibili al proprio interno: l’una, diretta a garantire la necessaria capacità di decisione; l’altra, mirata a rappresentare in vario modo le diverse opinioni e forze politiche nell’apparato decisionale.
La dinamica tratteggiata, per di più, contrariamente a quanto presupposto da un effettivo sistema maggioritario, non solo impediva all’elettore l’individuazione di scelte alternative e coerenti, ma non consentiva nemmeno chiarezza e trasparenza nel rapporto fra cittadini ed istituzioni elettive; ciò con l’effetto paradossale di ridurre, anziché ampliare, il potere di decisione dell’elettore.
Per non dire che il carattere misto della riforma nemmeno favoriva l’esercizio del «voto strategico», tipico del sistema maggioritario. Questo, infatti, presuppone la capacità dell’elettore di non sprecare la propria preferenza, informandosi e votando il candidato più competitivo e non quello preferito; al contrario, proprio la confusione e l’incertezza della situazione politica osteggiavano una tale valutazione, inducendo l’elettore a votare il candidato preferito e non quello più competitivo, con ciò aggravando ulteriormente la frammentazione del consenso.
Se questi sono i difetti di meccanica elettorale del precedente impianto, già ampiamente sperimentati a danno del Paese, vien da chiedersi: perché tornare al passato? Perché non favorire nuove forme elettorali di stabilità governativa? Di tutto c’è bisogno, fuorché del riproporsi dei precedenti errori e del riemergere delle vecchie, sterili e oramai insopportabili frammentazioni partitiche. Errare è umano, ma perseverare è diabolico. E’ bene che i nostalgici di oggi se ne facciano una ragione.