Cipro è un segnale. Un segnale che la rotta europea sta cambiando. Si punta diritti non a sviluppare solidarietà e mutualità, così come è scritto nei trattati di Maastricht. È una trasformazione che inizia da lontano, da molto lontano. Delors, Pohl, Mitterrand, Kohl, avevano in mente, certo, limiti al deficit e al debito, ma in un contesto in cui l’Ue avrebbe incentivato la crescita e provveduto a superare i limiti di questa realizzando le necessarie riforme a livello europeo. Senza di esse, il sacrificio della sovranità sarebbe stato vano. Ma nessuno di loro avrebbe mai pensato che i principi della circolazione dei capitali e dell’inviolabilità della fiducia bancaria nazionalmente garantita potessero essere violati da azioni comunitarie sovranazionali con gravi vulnus alla vita e alla convivenza sociale nei e dei singoli stati.
È quanto è invece accaduto a Cipro nel bel mezzo della depressione mondiale, fatte salve le modificazioni che all’ultima ora su pressione russa e soprattutto per la resistenza del Parlamento cipriota hanno avuto successo, impedendo che si colpissero i depositi bancari di minori dimensioni. Il nuovo “principio antieuropeista” rimane, tuttavia: i deficit bancari, prima che statali, dovrebbero, secondo il mood prevalente a livello di Commissione europea, essere pagati ormai non tanto dai cittadini tutti, tramite la tassazione, quanto invece da azionisti e depositanti delle banche periclitanti e in attesa di un fallimento che pare essere sempre all’orizzonte in primo luogo per le aliquote di capitalizzazione imposte dagli accordi di Basilea, che aumentano il costo del capitale e impediscono alle banche di operare come imprese che ottengono marginalità con l’esercizio del credito piuttosto che con le attività finanziarie ad alto rischio.
La Germania e i paesi nordici sono intenzionati a realizzare questo disegno. L’operazione cipriota, insulsa e condotta con l’ignoranza propria di chi ignora la storia e il contesto sociale e internazionale, rimane nella sua spregiudicatezza barbara l’anticipazione di un atto dinanzi al quale occorrerà decidere se agire o no in senso contrario. Quale che sarà la decisione dei parlamenti nazionali, il problema del prelievo tramite la tassazione forzosa di quote delle ricchezze nazionali sarà in ogni caso all’ordine del giorno: nel linguaggio della realtà tale processo si chiama “patrimoniale”.
Il problema sarà di realizzarla, se si vorrà, nelle forme più indolori e meno inique e facendo in modo che non si premino gli evasori. Per esempio, quale che sia il tetto e la quota imponibile, sarebbe necessario che da tale prelievo si sottragga l’importo già versato precedentemente allo Stato con il pagamento delle tasse pregresse, così da premiare coloro che le tasse le hanno sempre pagate. In secondo luogo, la cosiddetta patrimoniale dovrebbe essere modulata sulle differenze sociali, così da non ampliarle con prelievi regressivi anziché progressivi.
Veniamo ora alla stratificazione sociale italiana. La ricchezza totale privata ammonta a 9 miliardi di euro, ma la metà dei cittadini ne possiede il 90%, con un patrimonio di 1,3 milioni (il 60% in immobili) e un reddito di 5,2 mila euro netti al mese. L’altra metà possiede di quella ricchezza solo il 10%, con un patrimonio di 58 mila euro, di cui 30 in immobili (molto meno di una casa in proprietà per famiglia) e 28 in risparmi liquidi, con un reddito mensile di 1.800 euro. E il Sud costituisce i due terzi di tale metà. I più poveri, quindi, se perdono il reddito, per la disoccupazione o per malattia, vivono poco più di un anno con i risparmi della vita, ossia in gran parte la casa: poi si rimane sul lastrico.
Come si vede, l’Italia è uno dei paesi più disuguali al mondo occidentale e dove l’ingiustizia sociale è preclara. Negli Usa il 20% della popolazione possiede l’84% della ricchezza: tutti lo sanno e la battaglia si svolge attorno a questa distribuzione iniqua che Obama vuole eliminare. Qui in Italia il tema della disuguaglianza non entusiasma i cuori e neppure indigna le menti: la politica parla d’altro, nonostante gli slogan (“L’Italia giusta”). Ma se la prova generale della recessione e della repressione nordico-teutonica europea al fine di distruggere i sistemi sociali periferici continuerà, una ridistribuzione della ricchezza sarà necessaria per contrapporre misure meno ingiuste e non ad altissimi gradi di ingiustizia, quali quelle che albergano nelle strategie teutoniche e nordiche, ossia nel blocco di potere egemone che vuole imporsi in Europa.
Le mie perplessità sul fatto che a tali misure ci si potrebbe opporre con una patrimoniale, sia pure una tantum, continuano a essere elevatissime, perché io temo che allontaneremmo in tal modo ancor più gli investimenti esteri in Italia. Chi crede all’italico una tantum? Nessuno…