La “narrazione” grillina aveva già subito qualche altolà nelle scorse settimane. La retorica del programma/contratto come vero leader del nuovo governo legastellato — il programma, non i nomi — aveva mostrato una prima crepa proprio quando si è cominciato a discutere del nome più importante del governo, cioè del premier Conte, e poi un secondo scossone più clamoroso quando Matteo Salvini si era impuntato su Paolo Savona all’Economia. Il governo del programma ha incontrato i problemi maggiori sui nomi. Bel paradosso.
Ma ora quella “narrazione” sta cadendo come un castello di carte. Perché la partenza della legislatura è di fatto legata a nomi, poltrone, equilibri, bilancini, manuali Cencelli: proprio la “vecchia politica” che l’esecutivo del cambiamento aveva promesso di tenere lontana. Ora che sono definite maggioranza e opposizione, si può procedere a costituire le commissioni parlamentari e devono essere assegnate le presidenze delle commissioni di garanzia, di solito destinate alle opposizioni. Lega e 5 Stelle dovranno nominare 4 nuovi capigruppo perché quelli scelti a fine marzo sono passati al governo. C’è da spartirsi una cinquantina di poltrone tra viceministri e sottosegretari. Vanno decisi i vertici della Rai, della Cassa depositi e prestiti e di altre controllate: posti di potere vero. E non vanno dimenticati i dirigenti dei ministeri, determinanti per fluidificare il lavoro dei nuovi ministri.
Altro che “programma caro leader”, qui si ripiomba nella politica politicata e mai abbandonata. Con parecchi nodi da sciogliere, al di là del totonomi che ha preso a impazzare. Alcuni nodi sono interni alla maggioranza: per esempio, chi piazzare in Rai o a chi assegnare le deleghe all’editoria o alle comunicazioni. Andranno alla Lega o ai 5 Stelle? Ci sarà un occhio di riguardo ai settori sensibili per Silvio Berlusconi, e quindi per Salvini, o faranno man bassa i giustizialisti di Luigi Di Maio? Ieri mattina Salvini è stato 40 minuti a colloquio con il Cavaliere ad Arcore proprio per discutere di queste cose; d’altra parte il vecchio Silvio ha qualche credito da riscuotere con il leader leghista dopo avergli dato il “via libera” per il governo.
Il braccio di ferro sui nomi darà anche la misura su come si orientano i nuovi governanti, se cioè preferiranno nomi di garanzia o procederanno “manu militari” a piazzare fedelissimi per esempio alla Rai o alla Cdp. Sul sottogoverno si gioca invece una partita importante quanto trascurata da giornali e tv. Nell’esecutivo sono entrati 2 senatori grillini e 3 leghisti: poiché la maggioranza a Palazzo Madama è piuttosto risicata, i due partiti dovranno stare attenti a non sguarnire troppo le truppe parlamentari per non trovarsi un giorno nei guai. A meno che non si apra la caccia agli Scilipoti di turno, ai “responsabili”, ai peones disposti a rapide piroette pur di evitare il rischio di ritorni repentini alle urne.
Infine c’è un’ultima questione di poltrone da dirimere. Salvini aveva detto che l’indomani della nomina a ministro sarebbe stato alle 9 al Viminale per lavorare. Ebbene, domenica era a fare comizi elettorali a Catania e ieri a Fiumicino. O segretario o ministro: questo è ciò che chiede parte della base, soprattutto quella più vicina all’ex ministro Maroni. Ma Salvini, leader dell’ultimo partito italiano a impostazione leninista, si guarda bene dallo sciogliere le ambiguità se certe sparate le dice come capopopolo o come responsabile ultimo della sicurezza nazionale.