Qualcosa si è disvelato, più che rotto, con la questione greca e con la crisi ucraina in Europa e nel mondo. È vero che entrambe interessano il plesso più delicato della storia europea: quella cerniera terribile che va dai Balcani alla Crimea e che è sempre stata il fronte frastagliato e impervio e disgregato contro cui si sono infrante le ondate ottomane, zariste e poi austro-ungariche e poi bolsceviche e poi naziste, senza mai trovare un momento secolare e non solo decennale di stabilità. Un plesso terribile, ora che si incardina altresì con il millenario scisma islamico che riviene alla luce per le lotte intra-arabe più che intra-islamiche “da medie potenze regionali”. Ma ciò che fa la differenza è che sino all’inizio del nuovo millennio tutto pareva ancora poter essere ancorato sulla storia e sulla cultura che l’umanità incivilita e in primis le sue cuspidi statuali, avevano incorporato nelle loro rispettive nazionali diplomazie.
Questo patrimonio poteva condensarsi euristicamente in quella declinazione imperiale del diritto internazionale che inizia a costituirsi come pratica del governo mondiale sostanzialmente dopo il Congresso di Vienna del 1815 e che continua a implementarsi e a diffondersi in tutto il pianeta via via che sorgono nuove statualità e nuovi domini imperiali, sino alla fine del Novecento. Alessandro I di Russia, Francesco I d’Austria e Metternich, Talleyrand, il Duca di Wellington, ridisegnarono la carta dell’Europa, dopo l’uccisione politico-militare del Mostro che aveva infiammato le menti e i cuori dei rivoluzionari e oscurata la vita della reazione e del dominio insieme: l’Empereur temutissimo.
Napoleone fu eliminato e portato a morire nell’Oceano, ma la Francia fu salvata e ricostruita. La politica prendeva il posto della rivoluzione e la diplomazia quello dell’occupazione manu militari degli stati da parte di armate rivoluzionarie guidate da un capo impareggiabile che aveva fatto stupire lo stesso Hegel. Com’è noto quel secolo che ne seguì e che anche Polanyi magnificò, si dileguò con la Prima guerra mondiale, quando la forza stessa della storia – soprattutto per l’avvento della potenza germanica – sconvolse la diplomazia e illuse non solo i pacifisti, ma anche coloro che pensavano di placare il Minotauro germanico con le carni dei piccoli stati. Invece fallì il disegno che anche Marx ed Engels avevano vagheggiato di una possibile rivoluzione democratica in Germania, unificando gli stati del sud all’impero austroungarico, così da tagliare le unghie alla Prussia e così da non farla divenire troppo potente. Lo spirito demoniaco della volontà di potenza alla ricerca dello spazio vitale che già Tacito nella sua “Germania” aveva ben distinto, non poteva che travalicare ogni immaginazione angosciosa, come poi fu comprovato con il delirio del paganesimo hitleriano.
Il secondo dopoguerra può essere interpretato come un colossale tentativo sia da parte degli Usa, sia da parte dell’Urss di ricostruire un sistema “tipo Congresso di Vienna”. Teheran e Yalta, in definitiva, furono delle metafore di quel fenomeno straordinario dell’inizio dell’Ottocento. Perché fu irripetibile rimane un problema storiografico per la coscienza umanistica europea. Certo non esistevano, dei diplomatici di allora, ossia di quell’età dorata da cui il Congresso di Vienna scaturì, che delle pallide copie, delle svanite figure, ma che oggi in ogni caso giganteggiano, se guardiamo a coloro che ne hanno rivestito i panni in questi tempi così terribili e inquieti.
Lo sbigottimento dinanzi alla decadenza non può non assalirci con un senso di fallimento profondo se ci poniamo sul solco della civilizzazione occidentale. Comprendiamo che siamo al tramonto con un chiarore di morte indicibile. La “Guerra fredda”, tutti gli studiosi concordano, fu un equilibrio instabile ma in grado di scaricare sulle periferie i conflitti tra le due grandi potenze che erano ancora protese a spartirsi il mondo fuori dall’asse e dalla faglia, insieme, europea e nordamericana, a riprova di quanto decisiva, appunto, rimase e rimane, per le sorti dell’umanità intera, la questione europea e con essa, naturalmente, la questione mediterranea e quindi, ancora la questione sia balcanica che africana.
Ciò che però caratterizzò, in una forma preoccupante, la differenza tra il periodo post-Congresso di Vienna e quello post-Seconda guerra mondiale fu l’incapacità che disvelarono sia l’Urss, sia gli Usa e i loro alleati europei, in primis francesi e inglesi, di dare vita a quella serie di riaggiustamenti dell’equilibrio via via infranto che furono i capolavori diplomatici della seconda metà dell’Ottocento: penso al Congresso di Parigi del 1856 che si svolse dopo la guerra di Crimea e che diede un contributo enorme alla creazione di anni di pace in un contesto difficilissimo e pericolosissimo; penso alla Conferenza di Londra del 1871 dopo la guerra franco prussiana che, se fallì nell’impedire un eccessivo rafforzamento della Prussia per via dell’avvenuta unificazione germanica, fu tuttavia l’ultimo tentativo di regolare l’impetuosa e pericolosa crescita della Germania per la pace di tutto il modo; infine, penso al Congresso di Berlino dopo la guerra russo turca del 1878, che segnò addirittura un momento di civilizzazione diplomatica tedesca, pur dopo che le potenze belluine di quell’impero avevano eliminato e allontanato da sé la saggezza di Bismarck, ultimo esponente di una via pacifica al potere mondiale da parte della Germania.
Tutti questi tentativi di regolare l’ordine internazionale, mentre il colonialismo galoppava, il capitalismo trionfava, il mondo correva verso quell’evento tragico che fu la rivoluzione bolscevica, sono capolavori diplomatici che non siamo più in grado di creare oggi. Oggi ci snerviamo in continui accordi sul libero commercio o in riunioni “globali” o più ristrette (sic!) delle grandi potenze e delle piccole potenze per regolare o tentare di regolare i mercati, mentre le crisi economiche – tuttavia – risultano fuori controllo.
Il perché è presto detto: perché la politica a livello mondiale ha perso il suo potere specifico che è la diplomazia internazionale. Dopo la caduta dell’Urss non si è saputo ricostruire un nesso diplomatico, un dialogo diplomatico, neppure tra gli Usa medesimi e la potenza sconfitta. Non solo, questa incapacità ha tracimato in tutti gli stati europei e ha investito le stesse istituzioni europee, che sono state forgiate appunto dalla volontà macro-economica della finanza globale, piuttosto che da quella della diplomazia globale. È chiaro in tal modo che il ciclo politico dominante non è più quello della regola politica come continuazione della minaccia dell’uso della forza e come continuazione, insieme, della capacità strategica di non concepire mai la distruzione dell’avversario, ma la sua rigenerazione in senso favorevole all’equilibrio internazionale e all’integrazione statuale che non annichilisce l’avversario medesimo. Se così non si fa, come invece si è fatto, si favorisce la distruzione della capacità di equilibrio complessiva del sistema nazionale e quindi di quello internazionale per un semplice principio geopolitico, come è apparso evidente in Iraq e in Libia recentemente, quando le mucillaggini peristaltiche delle aggregazioni umane tribali hanno avuto la prevalenza sulle strutture statuali precarie e in ogni caso non eurocentriche che sorreggevano territori di insediamenti umani stabili ma dalle regole del potere totalmente differenti da quelle delle superpotenze e in generale delle regole europee.
La non comprensione di questa differenza ha scatenato l’inferno. E questo inferno ora si combina con il ciclo economico di potenza europea a dominazione teutonico-deflattiva oggi in atto in piena luce sul caso greco. Esso è una cartina di tornasole del fenomeno che sto descrivendo: siamo dinanzi al collasso di una civilizzazione diplomatica che ha impiegato circa sessant’anni a dispiegarsi appieno, oscurata dalla Guerra fredda e poi venuta alla luce per incapacità dell’Occidente di rispondere alle sfide di potenza che sono emerse dopo il crollo dell’Urss.
La farfalla greca e il coltello scismatico islamico sono, insieme, quel sommovimento tellurico che può provocare il crollo di un’immensa costruzione secolare da tempo pericolante.