Il Senato ha approvato il disegno di legge sul “processo breve”. Ciò è avvenuto tra scontri e polemiche e già si parla di ulteriori modifiche durante l’iter di approvazione presso la Camera dei deputati, ma cerchiamo di fare alcune osservazioni sull’attuale formulazione. Innanzi tutto la disposizione transitoria: si prevede che per i processi in corso, relativi a reati commessi fino al 2 maggio 2006, puniti con pena inferiore nel massimo a dieci anni, il giudice dichiari estinto il processo se sono decorsi più di due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico Ministero.
Questa disposizione, oltre ad essere priva di senso nell’ottica di una riforma complessiva del processo penale e dei suoi tempi che, ovviamente, deve valere per il futuro, produrrebbe degli effetti inaccettabili, di profonda ingiustizia per la collettività. Verrebbero, infatti, cancellati di colpo migliaia di processi anche per reati gravi: sono compresi tutti i reati societari, fallimentari (con la sola esclusione della bancarotta fraudolenta) e le violazioni finanziarie dei c.d. “colletti bianchi”, molti reati contro la pubblica amministrazione (tra cui la corruzione), la truffa aggravata ai danni dello Stato e degli enti pubblici, l’omicidio colposo, solo per fare alcuni esempi.
Processi per cui si sono spesi anni di indagini, di costi e di lavoro da parte delle forze dell’ordine, di magistrati e cancellieri, di avvocati e di consulenti tecnici, con le legittime aspettative di giustizia da parte delle vittime dei delitti contestati e di ristoro dei danni patiti.
Si afferma da parte dei sostenitori della norma transitoria che si tratta di processi comunque coperti da tre anni di indulto (valendo per i reati commessi anteriormente al 2 maggio 2006): la giustificazione è apparente e non convince.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Per i reati citati a titolo di esempio, nella prassi giudiziaria è difficile che le pene irrogate in via definitiva, o comunque da scontare in concreto, superino la soglia dei tre anni (limite entro il quale nel nostro Paese si può evitare la detenzione in carcere); ciò che veramente conta come deterrente, soprattutto per la tipologia di detti reati, è il fatto della condanna penale, perché essa rappresenta un ostacolo per poter rivestire incarichi e ruoli negli organi direttivi delle banche o degli enti pubblici, per poter partecipare ad appalti pubblici, perché incide sul rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti e, in generale, perché toglie l’incensuratezza ed espone il condannato a pene più significative e da scontare effettivamente, in caso di reiterazione dei reati, nei successivi processi.
L’estinzione prevista dalla norma transitoria, pertanto, significa garantire l’impunità ad una moltitudine di soggetti che è sotto processo per reati gravi, restituendoli incensurati alla collettività. Nessun provvedimento di clemenza è mai stato così scriteriatamente generoso: si pensi che l’ultima amnistia del 1990 (in occasione dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale), come quelle precedenti del resto, non sono mai state previste per reati al di sopra dei quattro anni di pena massima.
Il provvedimento di amnistia, che produce i medesimi effetti della norma in discussione, peraltro, proprio per la delicatezza delle sue conseguenze è previsto che venga approvato dalla maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento: il limite dei quattro anni, sempre rispettato, evidenzia l’intento condiviso e responsabile di escludere tutta una serie di categorie di reati più gravi, tra cui quelli descritti. Nel nostro caso si arriva addirittura alla soglia dei dieci anni di pena edittale massima.
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA SUL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Diversa è la valutazione della legge per il futuro: con le modifiche apportate e la previsione di tre, quattro o cinque anni (a seconda della gravità dei reati e della loro complessità) per il dibattimento di primo grado (originariamente se ne prevedevano solo due, indistintamente e irrealisticamente) e a scalare per i gradi successivi, il disegno di legge appare equilibrato. Se accompagnato da significative riforme incidenti sugli istituti del codice di procedura penale (quelli che nella pratica hanno dimostrato di essere fonte di gravi ritardi o di prestarsi a strumentalizzazioni dilatorie) e da un cospicuo finanziamento del settore giustizia, al fine di rendere efficiente l’apparato giudiziario, il processo breve è certamente la strada da perseguire.
Se resta un provvedimento isolato aggraverà ulteriormente la già patologica incapacità del nostro sistema di giungere al termine dei processi. In un’ottica di complessiva riforma del processo penale, per favorirne l’attuazione potrà essere preso in considerazione un provvedimento di clemenza quale l’amnistia (nei ragionevoli limiti di cui si è detto): esso oltre a disintasare l’apparato, sarà un segnale condiviso di reale volontà riformatrice e si potrà tornare ad affermare una cultura forte ed autorevole dello Stato che – in casi eccezionali – pone un gesto di clemenza, non nascondendo la propria fallibilità e non cedendo alla mentalità giustizialista che da troppo tempo inquina la nostra democrazia.
Un’ultima osservazione: se la norma transitoria ha come scopo quello di risolvere i problemi giudiziari del Premier e porre fine al conflitto tra politica e magistratura, la notizia di un’ulteriore indagine chiusa e pronta per un rinvio a giudizio nei suoi confronti, è la prova più evidente che non è la soluzione giusta; se, viceversa, il suo utilizzo come arma politica raggiungerà lo scopo di convincere l’opposizione e la magistratura (attraverso la parentesi del legittimo impedimento) a favorire il ritorno all’istituto dell’immunità, ripensato e adeguato (rispetto all’abolito art. 68 della Costituzione) agli attuali assetti del nostro sistema politico, potremo forse iniziare serenamente il processo di riforma della giustizia da tutti auspicato.