Per tentare un’analisi dell’anno appena iniziato, la coincidenza di un numero può essere di grande aiuto. Il numero in questione è l’undici. Undici come 2011 e come 11 settembre 2001. Il 2011 innanzitutto segnerà il decennale dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle.
Oggi si fa un gran parlare di crisi sovrane. Secondo le agenzie di rating, l’Europa, un vaso di coccio tra vasi ben più robusti, è l’unica area geografica ad aver mal gestito le proprie finanze. La prima conclusione che si può trarre osservando i primi dieci anni del millennio è che economia del debito e crisi sovrane sono una questione che travalica i confini europei, un problema globale alla radice del mondo in cui viviamo.
L’11 settembre 2001 tremila persone, ignari impiegati come molti tra noi, sono rimaste vittime di una follia ideologica che ha infranto in un mattino le utopie ireniste di inizio millennio. Da allora, gli Stati Uniti hanno ingaggiato un guerra su scala globale che ha portato il debito pubblico Usa dai 5,8 trilioni di dollari del 2001 ai 13,5 trilioni del 2010.
Prima di allora, il grande balzo in avanti del debito pubblico americano si era registrato tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90, quando il debito era raddoppiato da 2,8 trilioni di dollari a 5, valore su cui si era assestato fino al 2001. Evento scatenante di quel periodo: la caduta del muro di Berlino, 11 novembre 1989. Ancora una volta l’undici. Ancora una volta, un’impennata del debito. A provocare questo primo aumento, la grande liquidità ed euforia dei mercati all’indomani della sconfitta del regime sovietico.
Il 2011 si apre in una congiuntura per certi versi simile: il XX secolo ha dimostrato che lo Stato non può rispondere ai bisogni dell’uomo, oggi realizziamo che neppure il Mercato ne è capace. Questa nuova consapevolezza, chiaramente, non ha iniettato entusiasmo sui mercati; con crescente timore gli analisti, e in generale chiunque osservi la realtà con sguardo indagatore, si chiede: se neppure il credito facile può esaudire i desideri delle persone, cosa potrà mai farlo?
A questa domanda, a mio avviso, è riconducibile un fenomeno economico che inevitabilmente segnerà l’anno incipiente: dopo il fallimento dello stato e dei mercati, la corsa all’acquisto dell’oro, per antonomasia l’elemento incorruttibile del nostro pianeta, sembra ormai inarrestabile. Come si è giunti agli attuali 1450 dollari all’oncia, è presto detto: con i debiti pubblici alle stelle, una crescita inflazionistica è da molti indicata come l’unica soluzione capace di svalutare lo stock di debito in tempi brevi.
Per fornire un’idea del fenomeno, sarà sufficiente riportare alcuni prezzi storici: nel gennaio del ‘75 l’oro era scambiato a 200 dollari all’oncia, nel dicembre del 2002 il prezzo si aggirava intorno ai 350 dollari. Si direbbe che molti, in attesa di una risposta alle incertezze, si affideranno all’oro per salvaguardare il valore dei propri investimenti.
Tuttavia, a rendere il 2011 l’anno del metallo non c’è solo la folle corsa all’oro. In dieci anni, dal 2001 a oggi, il prezzo di un’oncia d’argento è passato da 5 a 30 dollari. A giustificare questa impennata non c’è solo la correlazione diretta tra i due metalli più preziosi: l’argento è un metallo caratterizzato da un impiego industriale ben più ampio rispetto all’oro. In particolare, l’argento viene largamente usato nel settore energetico, dove le batterie ad argento e zinco sono ormai ampiamente utilizzate in una vasta gamma di tecnologie, dai prodotti di elettronica ai pannelli fotovoltaici. Anche le terre rare, un gruppo di minerali di cui dirò fra poco, confermano lo stesso andamento: il 2011 sarà un anno in cui molti investitori domanderanno concretezza, cercandola innanzitutto nella solida produzione industriale e in investimenti tangibili.
Non credo che un tale spostamento di capitali – oro, argento, terre rare – possa essere giustificato dalla sola necessità di scongiurare una crisi inflazionistica. Investire in questi metalli offre soprattutto l’opportunità di posizionarsi nelle fasi iniziali di produzioni industriali ad alto valore aggiunto, proprio in un momento in cui questo settore rischia di ridisegnare gli equilibri economici a livello planetario. E le terre rare spiegano bene il perché.
Innanzitutto, le terre rare sono una serie di 17 elementi chimici che per le loro particolari proprietà trovano largo impiego nelle applicazioni tecnologiche. In particolare, tali minerali sono utilizzate per produrre fibre ottiche, magneti e superconduttori per cellulari e altri dispositivi digitali (tra i quali anche molte apparecchiature militari). Fin qui, tutto bene.
I problemi iniziano guardando la mappa dei giacimenti minerari. Dalla fine degli anni ‘80 la Cina si è progressivamente imposta come produttore mondiale di terre rare, arrivando nel 2010 a coprire da sola il 95% delle estrazioni mondiali. Dopo il fronte caldo del debito-credito, tra Cina e Stati Uniti un nuovo scontro rischia di innescare una stagione di instabilità sui mercati. E quando arriva volatilità – recitano i testi accademici su cui tutti gli investitori si sono formati – le opportunità di registrare grandi profitti (o grandi perdite) sono sempre in agguato.
Ma soprattutto, dopo essersi impossessata delle chiavi del credito statunitense, nel 2011 la Cina rischia di imporsi definitivamente quale guardiano delle produzioni ad alto valore aggiunto. Inutile rimarcare che senza questo tipo di produzioni, dove il fattore umano gioca ancora un ruolo fondamentale, le economie avanzate oggi si ridurrebbero a grandi catene di distribuzione, subordinate alle politiche economiche dei paesi-produttori a basso costo.
In questo scontro titanico, l’Europa resterà a guardare? Probabilmente, sì. L’Europa a trazione germanica sogna di crescere senza inflazione e non ne fa mistero. Di tutti questi movimenti, concentrati soprattutto sulle rotte del Pacifico, l’Ue non sembra interessarsi.
Tuttavia, un breve aneddoto capitatomi a ridosso delle feste spiega bene in quali termini il 2011 rappresenti una sfida per tutti noi. Alla ricerca di alcuni regali natalizi, sono entrato in una merceria di Parigi. Nelle mie intenzioni avrei acquistato alcuni gomitoli di lana e altri accessori necessari per lavorare a maglia. Con un misto di stupore e incredulità ho scoperto che interi scaffali di prodotti in lana già lavorati, tutti di medio-bassa qualità, costavano meno della lana necessaria a produrli.
Dopo aver controllato l’etichetta su una dozzina di capi, la situazione si è rivelata piuttosto inquietante: i prodotti sugli scaffali erano tutti di fabbricazione cinese. Poco male, dirà qualcuno; per un golfino di bassa qualità, a portata di mano e di portafoglio, si può sacrificare il talento e l’iniziativa di chi è disposto a investire tempo e capacità nei lavori a maglia (ma è davvero così? Non credo proprio).
Quando però i materiali per produrre sistemi di difesa costeranno più di un satellite cinese, questo qualcuno potrà ancora liquidare il problema con la stessa calma irenica?