“Se anziché regalare bonus e mance Matteo Renzi avesse utilizzato quei 15 miliardi di euro per fare investimenti, oggi in Italia avremmo 300mila posti di lavoro in più. E’ da questo dato di fatto che dobbiamo partire se vogliamo costruire un argine ai populismi, non da un tentativo di rubare voti a destra che non porta da nessuna parte”. La critica di Enrico Rossi al segretario del suo partito va al cuore di una politica economica che non ha guardato ai giovani e alle imprese più dinamiche, ma che ha distribuito soldi a pioggia senza riuscire a risollevare l’economia italiana. 58 anni, governatore della Regione Toscana dal 2010, ex sindaco di Pontedera, Rossi al momento è l’unico sfidante di Renzi per la segreteria al Congresso del Pd che si terrà dopo il referendum. “Il premier ha fatto cessare la rottamazione alla soglia politica, per il resto ha finito di identificarsi con l’establishment”, accusa Rossi.
Lei si è candidato alla segreteria del Pd. Su quali temi ritiene di essere alternativo a Renzi?
A differenza di Renzi, sono convinto che bisogna trovare un’identità più forte sotto il profilo politico e culturale negli ideali del socialismo. Con questo termine non mi riferisco alle diatribe del secolo scorso, quanto piuttosto alla capacità di sviluppare una critica al capitalismo, di non considerare il mercato come la soluzione di tutti i problemi, di affermare l’uguaglianza come impegno prioritario in tempi nei quali aumentano le disuguaglianze. L’obiettivo è la redistribuzione della ricchezza. Questo profilo politico e culturale è necessario anche per costruire un argine ai populismi, cioè a quella critica irrazionale della società esistente che porta verso gravi forme regressive.
Per Renzi i corpi intermedi della società sono un soggetto che appartiene al passato. Lei è d’accordo?
No. Al contrario il partito politico deve avere dei punti di riferimento precisi nella società. Mi riferisco ai ceti andati maggiormente in difficoltà durante la crisi, ai lavoratori dipendenti che si impoveriscono, ai disoccupati, i giovani senza lavoro e alle pensioni minime.
In che cosa è diversa la sua idea di partito da quella del premier?
Noi abbiamo bisogno di un partito radicato nella società, organizzato, che pratichi una politica autonoma dai poteri e che non si limiti a essere partito di un Cesare. Anche su questo sono alternativo a Renzi, il quale ha un’idea di Pd molto diversa da quella di un partito organizzato e radicato nella società, che si rivolge anche ai gruppi intermedi e fa contare i militanti.
Qual è la sua ricetta per fare uscire l’Italia dalla crisi?
Innanzitutto riconosco a Renzi la forza di avere attuato politiche di espansione nel 2014 e 2015, ma queste politiche si sono tutte rivolte al lato della domanda: detassazioni generalizzate, bonus, in qualche caso persino mance rivolte a individui, gruppi sociali e molto spesso anche all’impresa, cui è stato destinato un trasferimento fortissimo.
Che cosa è mancato nella politica economica di Renzi?
Il punto fondamentale che è mancato è la ripresa degli investimenti. Se avessimo investito 15 miliardi in più all’anno si sarebbero creati 300mila posti di lavoro. Bastava rinunciare a qualche bonus alle famiglie e a qualche detassazione generalizzata alle imprese. Ciò avrebbe significato pensare davvero ai giovani e al futuro.
Basta questo per fare ripartire l’economia?
Nel mio programma ci sono tre pilastri. Il primo, come le ho detto, sono gli investimenti. Il secondo è la scelta di supportare in modo selettivo le aziende: le risorse vanno concentrate sull’impresa dinamica che fanno fatturato e occupazione. Il terzo pilastro è la lotta alla povertà, per la quale sarebbero necessari 5-6 miliardi.
In un’intervista lei ha detto: “Renzi cambi o rischia di essere finito”. Che cosa intendeva dire?
Se noi continuiamo a spostarci a destra e a perdere i voti dei ceti popolari, come è avvenuto nelle ultime elezioni, il rischio è che rapidamente la spinta che Renzi ha dato si esaurisca e che quel dinamismo che lui ha voluto imprimere finisca. Il premier ha fatto cessare la rottamazione alla soglia politica, per il resto ha finito di identificarsi con l’establishment.
Lei si considera come l’anti-Renzi?
La dialettica politica non si può ridurre a uno scontro tra leader. Vorrei che il prossimo congresso del Pd sia soprattutto un confronto sulle questioni che prima le dicevo. Vorrei provare a superare la logica renziani-antirenziani. La gente è anche stanca delle polemiche personali, e quindi quella di “anti-Renzi” è una definizione che non mi convince. Mi sento piuttosto alternativo a Renzi e alle sue politiche.
Distinguere premier e segretario significa rinunciare a un partito personalistico. Eppure ovunque nel mondo non si sta forse andando verso il partito del leader?
I leader sono evidentemente necessari. Si dovrà ragionare sull’eventualità di come organizzarci se il premier dovesse fare ancora il segretario del partito. Quello che posso garantire è che nell’eventualità in cui io vincessi il congresso, per quattro anni mi dedicherò a costruire il partito. Questa è l’esigenza prioritaria per il Paese, per la democrazia e per lo stesso Pd.
Lei come voterà al referendum costituzionale?
Voterò Sì perché questa legislatura nasce con l’obiettivo di fare le riforme. La ponderazione tra ciò che è positivo e ciò che è meno positivo nella legge costituzionale mi porta a esprimermi in questo modo. Non si può fare il gioco dell’oca sulle riforme istituzionali come già è successo tante volte. Il superamento del bicameralismo perfetto e una revisione del ruolo delle Regioni, sia pure pasticciata come è venuta fuori, in ogni caso rappresenta un passo in avanti. Voterò Sì, però capisco anche chi ha deciso di fare diversamente.
(Pietro Vernizzi)