Il primo anno di governo e di indubbi successi di Berlusconi coincide con un altro anniversario. La Lega compie venticinque anni e li dimostra. Non nel senso che è invecchiata anzitempo, ma che è diventata maggiorenne. Per intenderci, non è più la Lega di “Roma ladrona, la Lega non perdona” e nemmeno di “Tas, Lumbard”. Figuriamoci la Lega della secessione, del dio Po, delle ampolle sul Monviso e delle processioni chilometriche, di Gianfranco Miglio e dell’Italia divisa in quattro (cantoni). Come un “vecchio” partito d’antan, – è, infatti, il più vecchio della Prima Repubblica, anche perché gli altri sono stati annientati dal manipulitismo incoraggiato dal Senatur, et pour cause – la Lega è tuttavia un’anomalia, una sorta di partito leninista senza l’ideologia, un partito localista e al tempo stesso nazionalpopolare, di destra e di sinistra, cattolico e pagano, liberale e statalista.
L’ideologia della Lega è quella della conquista del potere e della sua gestione, del controllo del territorio e dell’allargamento della propria influenza, avendo un Capo e uno solo. In questo, ma solo in questo, la Lega assomiglia a Forza Italia; e Bossi si rispecchia nel Cavaliere proprio nella misura con la quale la leadership costituisce una sorta di corpo mistico col suo popolo. Senza Bossi la Lega perderebbe una sua raison d’etre, esattamente come il Pdl, senza Berlusconi, cadrebbe in balia di venti e maree. La personalizzazione della politica è iniziata con Bossi, non con Berlusconi. Ma costui ha, storicamente, incapsulato la Lega distogliendola dall’impossibile variante secessionista e immettendola nel grande gioco nazionale. Per questo i puri e i duri leghisti non perdoneranno mai a Berlusconi quella che molti chiamano una corruzione delle antiche e più pure aspirazioni del movimento ispirato ad Alberto da Giussano.
In realtà, i limiti della Lega sono, a volte, più visibili dei suoi pregi, non foss’altro che per la modestia della sua classe dirigente a forte impronta locale. E per la fortissima valenza demagogica di certi esponenti, ma a costo (rischio) zero, in virtù della zona franca in cui si è collocata, pronta a seguire, se del caso, la mitica politica dei due forni. A parte il lato abbastanza pittoresco, di leggende e di liturgie che ancora l’avvolgono e della quale non riescono a farne a meno per la semplice ragione che il localismo/federalismo non è un’ideologia, è un fine, un mezzo, un modo come un altro per tenersi stretto un pezzo, e che pezzo, del paese.
Lega di lotta e di governo, dunque, e di sottogoverno. Pratica che gli uomini del Senatur sanno gestire con raffinata e spesso impunita protervia, dando cioè ad intendere che loro non sono per i posti, le poltrone, gli enti, come la partitocrazia dei bei tempi, ma guai se non ne ottengono la loro parte seguendo le norme dell’immortale manuale Cencelli.
Fino ad ora il gioco ha reso, e non poco. Tra l’altro, l’aver portato a caso un federalismo ancora in fieri ma già abbozzato è un risultato di cui va dato merito a Calderoli e non solo, al di là dei soliti giri di valzer. Peraltro ricambiati dal Cavaliere a proposito di referendum e dell’insistenza sui temi nazionali, vedi la vicenda abruzzese. Fare i conti con la Lega non è un optional per Berlusconi, ma un passaggio obbligato, per anni.
La posizione del Premier è tuttavia più forte rispetto al quinquennio precedente. Il primo anniversario della sua vittoria su Prodi e Veltroni lo vede sulla cresta dell’onda e non soltanto nei sondaggi. E ciò non tanto o non solo per avere imparato tutto o quasi della politica e dei suoi giochi, ma per la solidità del suo rapporto col comune sentire (nonostante un’economia in difficoltà e con una Regione in ginocchio) che gli ha impedito di fare grossi sbagli, e, anzi, lo ha spronato a migliorare. La sua fortuna, dicono, sta nell’inesistenza di una sinistra, cioè di un’opposizione senza idee e priva di progetti. Ma questa, lungi dall’essere una colpa, è semmai una lacuna, un’anomalia cui lo stesso Premier deve rimediare. Sullo sfondo, ma non tanto, il controllo dell’elettorato del Nord, dell’Italia che produce, del Lombardo-Veneto. E’ qui che il Cavaliere ha un appuntamento, che si preannuncia come uno scontro, non con la sinistra: con Bossi.