La verifica del governo si avvicina. I cinque punti programmatici (giustizia, federalismo fiscale, riforma tributaria, Sud e sicurezza) elaborati dal vertice del Pdl per costringere i finiani a una scelta definitiva sono pronti da tempo. Se non si verificherà la convergenza sperata la crisi di governo sarà però inevitabile. Il ministro Sacconi, ospite quest’oggi al Meeting di Rimini, si mostra però fiducioso: «Sono convinto – dice a IlSussidiario.net – che oggi ci sia una maggioranza parlamentare che voglia sostenere la nostra politica di cambiamento dei paradigmi nel segno del “meno Stato, più società”. Una maggioranza parlamentare, che potrebbe essere addirittura più ampia sui temi della biopolitica, a mio parere oggettivamente e inevitabilmente in agenda».
Il tema del Meeting di quest’anno è il cuore dell’uomo e il suo desiderio di cose grandi. Che contributo può offrire questo appuntamento alla politica italiana, in un momento in cui sembra incartarsi sugli scandali e sugli scontri interni agli schieramenti?
Credo che il Meeting possa dare un grande contributo richiamando la politica ai suoi stessi fondamentali. Mi riferisco a quei valori che muovono dal riconoscimento della centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali, e dal riconoscimento del valore della vita. Mettere a tema il cuore dell’uomo significa, a mio parere, essere consapevoli del fatto che bene comune e futuro non si costruiscono a partire dalle burocrazie pubbliche, ma dalle persone. Questo potrebbe aiutarci a fare un passo ulteriore.
Cosa intende?
Occorre superare la concezione hobbesiana dello Stato e l’antropologia negativa che la sosteneva, in favore di un’antropologia positiva che possa ridisegnare il rapporto tra Stato e società. Vorrei sottolineare che, proprio sulla base della premessa “meno Stato, più società”, l’attuale governo ha portato avanti due progetti necessariamente connessi come il federalismo e il nuovo modello sociale disegnato dal libro bianco.
Negli ultimi tempi la distanza tra politica e società civile è sembrata allargarsi pericolosamente. È una preoccupazione che coinvolge anche il governo?
I pericoli di autoreferenzialità della politica sono sempre immanenti, credo però che la grande crisi che stiamo attraversando abbia costretto la politica a confrontarsi con la durezza dei problemi reali. Per questo è importante non confondere il teatrino estivo aperto dai cosiddetti finiani, certamente autoreferenziale, e l’attività di governo. Il lavoro compiuto dovrebbe essere riconosciuto, non solo per i risultati prodotti, ma per la sua stretta relazione con la realtà.
L’ipotesi di un ritorno a una legge elettorale che restituisca ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti attraverso la preferenza non la trova d’accordo?
Sulle forme elettive si può discutere, ma non mi pare che sia questa la priorità del Paese. Bisogna essere consapevoli del fatto che la nostra democrazia si confronta con sistemi istituzionali molto semplici e che la stessa competizione economica sollecita forme istituzionali fortemente semplificate. Non si tratta in alcun modo di rinunciare alla nostra cultura democratica. Anzi, penso che vada rafforzata attraverso l’incrocio tra sussidiarietà verticale e orizzontale, spostando così il potere dalle tecnocrazie centrali alla società, alle persone e alle tante forme di auto-organizzazione che queste sanno produrre. Io comunque diffido dai meccanismi elettivi del passato.
Per quale motivo?
Abbiamo bisogno di deleghe forti, perché chi ricopre funzioni nazionali deve saper prendere decisioni strategiche per il Paese senza essere condizionato da micro-interessi territoriali, che devono invece esprimersi nei poteri regionali e locali.
Passando alla verifica interna alla maggioranza, lei si è mostrato fiducioso perché questo passaggio potrebbe rilanciare l’azione del governo. Secondo alcuni opinionisti però l’intesa con i finiani sui famosi cinque punti è impossibile e ci porterà direttamente al voto…
Sono convinto che oggi ci sia una maggioranza parlamentare che voglia sostenere la nostra politica di cambiamento dei paradigmi nel segno, come dicevo, del “meno Stato, più società”. Una maggioranza parlamentare, che potrebbe essere addirittura più ampia sui temi della biopolitica, a mio parere oggettivamente e inevitabilmente in agenda. Per questo il governo non deve essere prigioniero di alchimie negoziali, ma deve confrontarsi direttamente con il Parlamento, assumendo su di sé la responsabilità delle decisioni che ritiene fondamentali per il Paese.
Questo può significare che se non fosse possibile un’intesa con i finiani la convergenza delle forze di centro potrebbe evitare comunque la strada del voto? Nel caso Umberto Bossi ha già fatto sapere di non essere favorevole a un ingresso dell’Udc…
Non voglio commentare, perché non ho parlato di alchimie politiche, ma di confronto diretto tra governo e Parlamento. Penso che tutto il mondo cattolico possa ritrovarsi e convergere su due valori fondamentali, quello della vita e quello della sussidiarietà. Si autoescluderanno solo coloro che avranno consegnato l’anima a una sinistra di matrice comunista.
Se, come credo, questo governo continuerà a essere caratterizzato da buona coesione e sarà sostenuto da larghe maggioranze parlamentari andrà avanti.
In caso contrario?
Se non fosse così dovremo inevitabilmente chiedere al Presidente della Repubblica di consentire agli italiani di esprimersi nuovamente perché il Paese ha bisogno di maggioranze coese e non di soluzioni pasticciate.
Quanto può costare al Paese una lunga e velenosa campagna elettorale che rischia di lasciare incompiute le riforme?
Guardi, le riforme possono anche rimanere incompiute per due mesi, ma se si fa un governo con una sinistra di matrice comunista le riforme sono del tutto negate.
Lei ha fatto riferimento più volte a una “matrice comunista” e in una recente intervista si è riferito direttamente a Vendola, come se fosse il nuovo avversario del centrodestra. La sinistra riformista non è più nemmeno un interlocutore?
Non spetta a me dire se Vendola sarà il prossimo avversario del centrodestra. Di certo è quello che parla più esplicitamente. Per quanto riguarda le idee e le proposte di quel che resta della sinistra comunista posso dire che vanno tutte nel senso opposto rispetto a ciò che serve al Paese.
Da ultimo, lei ha parlato del caso Pomigliano come di un esempio concreto di quel “meno Stato, più società” a cui ha fatto riferimento prima. Cosa significa un precedente di questa rilevanza dal punto di vista delle relazioni industriali e sindacali?
Significa che le relazioni industriali evolvono in senso partecipativo, come del resto chiedono da tempo Cisl e Uil. Il modello Pomigliano potrà essere infatti esportato, non tanto sulla base degli specifici contenuti dell’accordo, ma in forza di un metodo secondo il quale le parti si adattano alle diverse situazioni territoriali e aziendali. I due sindacati che citavo, del resto, sono da tempo interessati a intese con queste caratteristiche e ne hanno sottoscritte di analoghe.
(Carlo Melato)