L’attuale crisi economica e finanziaria ha fatto emergere una situazione di difficoltà per le Pmi italiane che era già presente prima del crack finanziario. Una dimensione media d’impresa molto piccola, una bassa capitalizzazione e un elevato indebitamento finanziario, un modello produttivo prevalente basato sul contoterzismo, l’assenza di investimenti in ricerca e sviluppo e un forte orientamento alla produzione a discapito dell’aspetto commerciale sono alcuni dei principali problemi strutturali che le nostre Pmi avevano tralasciato, ma che la recessione economica ha fatto emergere.
La stretta del credito da un lato e la contrazione degli ordinativi dall’altro hanno compromesso una situazione industriale che era già strutturalmente in difficoltà. Ad esempio, una delle principali leve competitive del made in Italy, cioè la competitività del prezzo, causata da un più basso costo del lavoro rispetto ai principali competitor internazionali, era già stata messa in crisi dall’ingresso della Cina nel mercato globale e del resto lo sarà sempre di più con lo sviluppo delle così dette economie Bric (Brasile, Russia, India e Cina).
Eppure si sente dire che l’attuale recessione può essere un’occasione positiva, tanto che l’ideogramma cinese di crisi significa opportunità. Ma dov’è il vantaggio in una situazione economica in cui vi sono molte imprese che stanno chiudendo, altre che rischiano e molte che hanno ridotto il personale?
L’occasione è data per ridisegnare i prevalenti modelli di business delle nostre imprese e rendere queste ultime più competitive nel mercato globale. Quest’ultimo è cambiato rispetto alle regole che lo hanno governato negli ultimi decenni, per cui, occorrono nuove strategie per potervi operare. Non tutte le imprese saranno in grado di sopravvivere alla crisi, ma quelle che riusciranno a innovarsi e a riprogettarsi si troveranno più forti, innovative e competitive di prima e magari con una dimensione media un po’ più grande di quella attuale.
Un esempio di cambiamento di business e di modello d’impresa è rappresentato dalla cooperativa “Solidarietà Intrapresa” – cooperativa sociale di Forlì che unisce all’attività di accoglienza di persone svantaggiate dal punto di vista psichico, una attività imprenditoriale che vede anche questi ragazzi tra le forze lavoro – che ha visto crescere il fatturato della sua impresa da circa 7 milioni di euro nel 2004 a 12 milioni di euro nel 2008.
CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA IL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Tale successo è stato possibile grazie al passaggio dalla produzione per conto terzi nel settore dell’assemblaggio elettrico, plastico e meccanico, allo sviluppo di un proprio prodotto. La produzione per conto terzi, se da un lato può assicurare importanti commesse con bassi costi d’investimento per la progettazione e la R&S, dall’altro ha il rischio di non tutelare il produttore che può vedersi portare via una commessa per pochi centesimi, con l’aggravante di aver industrializzato un prodotto per un concorrente.
Così nel 2004 “Solidarietà Intrapresa” ha deciso di passare allo sviluppo e alla produzione di un proprio prodotto. All’inizio ha dovuto affrontare molte difficoltà, ha commesso, inevitabilmente, degli errori, ma alla fine la scelta strategica ha pagato. Davide Benini, presidente e fondatore della società, commenta in questo modo il cruciale passaggio:
«Nel cercare [un nostro prodotto], ma soprattutto nel rileggere le nostre competenze, scoprimmo che uno dei settori su cui avevamo esperienza era quello delle scale da interni, che la maggioranza di chi le produceva era fatta soprattutto di falegnami senza nessuna competenza sui metalli, e che il mercato richiedeva non solo legno, ma legno e ferro, legno e acciaio, acciaio e vetro. Allora, con un amico con esperienza ventennale nel settore, abbiamo iniziato a progettare e vendere sistemi modulari per scale da interni, curando molto il design e la funzionalità, ma anche, non da ultimo, il costo finale del prodotto, che in momenti di crisi come questi ha permesso a chi rivende i nostri prodotti di ritagliarsi nicchie di mercato che diversamente non avrebbe».
Le altre leve competitive utilizzate sono state una reale politica aziendale per l’innovazione, con l’impiego di apposito personale nella funzione di Ricerca e Sviluppo, e il reinvestimento degli utili generati dalla gestione all’interno dell’impresa. Sviluppo di un proprio prodotto/marchio abbandonando la produzione per conto terzi, investimenti in R&S e autofinanziamento, non sono certo la soluzione a tutti i mali della crisi, ma sicuramente un ottimo punto di partenza per rimodellare il modello di sviluppo delle Pmi italiane.
Occorre fare un’ultima considerazione e cioè che la cooperativa sociale in oggetto ha come dipendenti, tra gli altri, persone disabili, prevalentemente malati psichici. Ciò rappresenta sicuramente una bella lezione per il mondo del profit che spesso considera il non profit di serie inferiore.
CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA IL SIMBOLO >> QUI SOTTO
Così, conclude Benini: «Oggi vendiamo in Italia, ma soprattutto in Europa, con contatti e verifiche anche in altri Stati. Non è un punto d’arrivo, anzi una sfida con il mercato sempre aperta, anche perché oggi non basta neanche il prodotto, che comunque nel migliore dei casi va sempre migliorato, diversificato, con un grosso lavoro di ricerca e sviluppo a cui dedichiamo molte energie. La soddisfazione più grande è che intorno a tutto ciò ci sono i miei 170 ragazzi disabili che a vario titolo rendono possibile questo “miracolo”, e la fedeltà a quello “stupore” per la positività del Reale che ci apre continuamente e che costantemente ci rimette in moto».
Pertanto, anche il non profit produce ricchezza e sviluppo, come in questo caso, sebbene solitamente si creda il contrario.