Moody’s ha confermato il rating dell’Italia (Baa2) e ha fatto anche un po’ di autocritica, riconoscendo che il Paese attraversa una fase di crescita superiore rispetto alle previsioni. Non solo, l’agenzia americana ha lodato il comportamento del governo Gentiloni nella gestione delle crisi bancarie, perché ha evitato una crisi più profonda. Ma attenti a dormire sugli allori: “Nonostante i recenti miglioramenti, le prospettive di crescita sono probabilmente destinate a rimanere moderate nel medio termine”, sottolinea Moody’s. Resta “una considerevole incertezza” sulle politiche che verranno adottate dal prossimo esecutivo, sulla capacità e la volontà di continuare ad affrontare in maniera efficace le vulnerabilità del Paese.
Del resto – evidenzia ancora l’agenzia – gli ultimi sondaggi suggeriscono che dalle urne uscirà un risultato molto probabilmente incerto, con un Parlamento “sospeso” perché nessun partito avrà la maggioranza per formare un governo. Andrebbe aggiunta la debolezza programmatica mostrata finora dai partiti politici, soprattutto sulle due questioni chiave: la riduzione del debito pubblico e le banche che, nonostante i miglioramenti, restano ancora molto fragili.
Sul sistema bancario sta cadendo una nuova tegola lanciata dalla vigilanza della Banca centrale europea. Prima il bail-in (retroattivo), poi i limiti al possesso di titoli di stato considerati strumenti non più privi di rischio, adesso la svalutazione dei crediti deteriorati (anch’essa retroattiva?); sembra proprio che a Francoforte una manina malevola stia manovrando per mettere con le spalle al muro le banche italiane.
Complotto? No, piuttosto conflitto tra interessi e culture divergenti. Lo ha messo in evidenza l’intervento di Antonio Tajani, Presidente del Parlamento europeo, il quale ha polemizzato contro la logica burocratica della vigilanza della Bce e ha fatto riferimento al diverso approccio tenuto nell’estate scorsa dall’Ecofin. I ministri delle Finanze della zona euro, infatti, chiedevano di muoversi con i piedi di piombo, dopo un’attenta analisi e lasciando alle banche il tempo di adattarsi. Al contrario, Daniele Nouy vuole imporre la svalutazione totale dei non performing loans dopo due anni se non sono coperti da garanzie reale e dopo sette se hanno come corrispettivo proprietà immobiliari.
Si tratta ancora di una proposta contenuta in un addendum e la non retroattività non è affatto scontata. Non solo: l’analisi sulla gestione dei crediti deteriorati fatta dalla Banca d’Italia mostra che le procedure concluse nel 2014 hanno impiegato al massimo tra gli 8 e i 9 anni. Dunque, 7 anni non sembra un limite irragionevole. Troppo stringenti appaiono i due anni soprattutto a causa dello stato disastroso della giustizia civile. In ogni caso, ciò è sufficiente a giustificare i toni minacciosi e francamente ricattatori dell’Assobancaria che, anziché impegnare le banche a risanarsi al più presto, annuncia già un taglio dei prestiti a famiglie e imprese?
Il presidente della lobby bancaria, Antonio Patuelli, partito lancia in resta, dovrebbe dire, per onestà nei confronti dei risparmiatori e dei depositanti, che lo stato di salute del sistema è migliorato, ma l’epidemia non è finita. I crediti deteriorati lordi ammontano a 206 miliardi e oltre un quinto è tuttora concentrato nel Monte dei Paschi di Siena. È opportuno chiedere tempo e flessibilità, ma non si può trascinare alle calende greche la pulizia dei bilanci. Non solo. Nonostante tutti gli aumenti di capitale privati e i salvataggi pubblici, le banche italiane sono poco capitalizzate. Ciò è ancora più grave perché fanno pochi utili, meno delle loro concorrenti europee. Chiedere flessibilità è inevitabile, purché non diventi un alibi per tirare a campare, evitando una riforma vasta e profonda dell’industria bancaria, una vera ristrutturazione pari per dimensioni ed efficacia a quella avvenuta nella industria manifattura.
I governi guardano allo sviluppo e la vigilanza guarda alla stabilità, potrebbe sembrare una dialettica normale. Per l’Ecofin la priorità è non mettere ostacoli alla crescita la quale (questa è anche la tesi di fondo del governo italiano) aggiusterà le cose, prima o poi. La banca centrale ha come mandato di garantire l’equilibrio finanziario del sistema. Per questo Mario Draghi ha pompato denaro liquido senza limiti, ha fatto ricorso alla pratica dell’acquisto di titoli (il Quantitative easing) irrituale rispetto alla natura della Bce e nel luglio 2012 ha pronunciato la frase che ha salvato la zona euro dal collasso: “whatever it takes”, faremo tutto quel che è necessario, ma proprio tutto, ha aggiunto. Madame Nouy interpreta questo principio di fondo. Lo fa in modo rigido e parziale? Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensa Draghi.
Ma lo scontro non è soltanto tra la logica “burocratica” della Bce e quella “politica” dell’Ecofin. Perché all’interno della zona euro c’è un folto nucleo di governi, guidato dalla Germania, il quale pensa che la stabilità sia la premessa per lo sviluppo. Questa filosofia si rispecchia nella vigilanza europea, con tutto quell’eccesso di regolamentazione che rischia di soffocare il mercato e la crescita. Il contrasto tra le due visioni verrà alla luce senza veli non appena sarà formato il nuovo governo tedesco e si comincerà a discutere sulla riforma della Ue.
È già chiaro, per esempio, che c’è una differenza sostanziale tra la proposta di un ministro delle Finanze avanzata da Parigi e la trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità in un Fondo monetario europeo guidato da criteri tecnici e non politici. Forse il dossier verrà aperto già al Consiglio europeo di fine anno al quale l’Italia arriverà con un governo di fatto in scadenza, quindi con poteri contrattuali ancora più scarsi.
Moody’s s’interroga su che cosa accadrà dopo le elezioni, ma la vera preoccupazione è su cosa avverrà prima di quanto si possa immaginare.