La deprimente polarizzazione gufi/non-gufi imposta dallo “story-telling” renziano sembra pretendere di inibire gli ardori polemici di chi semplicemente non è d’accordo e lo dice, intimandogli (quasi fosse un obbligo) di dire “come diversamente farebbe” rispetto alle scelte da cui dissente. O, in mancanza, di tacere.
Errore. In democrazia l’opposizione pura è un diritto sacrosanto. Imporle di declinarsi in proposte alternative e – come dicono i renziani, “costruttive” – è arbitrario, e parecchio “reazionario”, per usare un termine vintage che però suona assai bene di questi tempi. Anche perché chi si candida a comandare ha responsabilità infinitamente più impegnative di chi si candida semplicemente a difendersi, e a difendere il prossimo, dai sempre possibili abusi del potere, qualunque potere.
Poi, per carità: è vero che dietro a troppi Grillini c’è un Gemelli – di cui opportunamente i giornali hanno ripubblicato i recenti tweet anti-casta, salvo poi essersi rivelato un famelico cacciatore di favori; è vero che il voto in Italia (e non solo) è quasi sempre di scambio, che chi depreca il lusso degli altri lo definirebbe penuria se fosse suo… Ma tutto ciò – ovvero le tante miserie che inquinano la democrazia, come del resto tutte le manifestazioni umane – non toglie a nessuno il diritto di dire no e basta, anche alle trivellazioni ad esempio, senza per questo sentirsi obbligato a presentare un piano strategico universale sulle energie alternative…
C’è un abisso tra coloro che scelgono la politica come attività prevalente o mestiere, tra coloro che cioè decidono di candidarsi a rappresentare e a guidare il prossimo, e coloro che invece non se la sentono, non nutrono convinzioni altrettanto forti (ammesso che i politici ne abbiano) al punto da decidere di farne oggetto di propaganda e impegno politico e, insomma, si sentono “cittadini comuni”. E proprio a fronte di questo forte “gap” di motivazione e anche di “autostima” tra chi fa politica attiva e chi si limita a votare è giusto e comprensibile che la reazione dei semplici elettori possa essere quella del semplice dissenso.
C’è quest’oggettività dietro la vaghezza dei programmi che spesso anche i partiti minoritari presentano. Nella loro logica, delegittimare con le critiche le ragioni (o le pretese ragioni) di chi governa viene prima, sul piano logico e pratico, del connesso teorico obbligo di sviluppare progetti alternativi. E non è una logica sbagliata. La storia insegna – e quella italiana dovrebbe insegnarlo con particolare crudezza, ricordando i 472 mila concittadini morti per una guerra mondiale voluta da una dittatura – che il potere va marcato stretto, va controllato con diffidenza, non va mai accettato acriticamente, a scanso di rischi assai più gravi di qualche inefficienza, di qualche burocrazia, di qualche giro di carte bollate di troppo.
Dovrebbe essere inutile ricordare questi concetti, basilari per il gioco democratico, se non fosse che di questi tempi li si sente spesso confutare e a volte anche irridere, da chi sostiene che l’Italia non possa più permettersi un’opposizione pura e semplice. Che non sia più il tempo, per i sindacati, di reclamare più soldi e meno lavoro perché il mercato globale non ce lo consente più; che i giornalisti non possano limitarsi a cercare e scrivere “ciò che non va”, ma debbano sentirsi investiti da una responsabilità politica e quasi istituzionale in base alla quale, prima di pubblicare notizie scomode verso qualunque potere, dovrebbero chiedersi se sia giusto o meno disturbare il manovratore.
Questa tesi, molto agitata dalle forze che sostengono i governi in carica in Europa – e il nostro tra gli altri e più di alcuni – fa un contrasto stridente e quasi paradossale con l’emorragia di sovranità che nel frattempo questi stessi governi nazionali hanno patito a vantaggio delle istituzioni sovranazionali.
In patria non si tollera opposizione se non costruttiva, e quindi mediatrice, bonaria, in definitiva “asseveratrice”: è la logica delle larghe intese che alla fine sorreggono, si fa per dire, il destino politico di alcuni grandi paesi. Poi, quando ci si siede nei consessi comunitari, o davanti all’Onu o al Fondo monetario, i leader più assertivi e sicuri di sé, e più polemici e chiusi verso le loro opposizioni (non solo Renzi, sia chiaro!) balbettano, non ribattono, tremanti tirano fuori il taccuino e prendono nota degli ordini ricevuti. Surreale.
È chiaro ed è giusto che chi governa abbia in mano le leve per agire. Ma ci vogliono contrappesi permanenti e non carsici. Cinque anni volano, nella vita di un uomo, ma possono pesare secoli in quella di una nazione. Se le opposizioni potessero manifestarsi solo una volta ogni cinque anni, cioè solo al momento di votare, sarebbe un disastro. Il dissenso, e anche il mugugno, sono il sale della democrazia e lo spirito democratico dei leader si misura anche sulla capacità di incassare le critiche, trarne ciò che sempre di buono contengono, e non bollare d’infamia chi le muove. Più di cento Ruby nocque a Berlusconi, all’epoca ancora strapotente, l’imperdonabile errore di dare del “coglione” a quel quarto di elettori che stava per votare, e votò, a sinistra. Un po’ come definire “bufala” un referendum che non lo è affatto.