Una cosa è certa: le prossime elezioni, in un modo o nell’altro, si decideranno in Lombardia. La madre di tutte le battaglie si combatte fra il Ticino e il Mincio, e sarà una battaglia all’ultimo voto.
Due i fronti, strettamente legati fra di loro, quello della Regione e quello del Senato. Sul primo fronte Roberto Maroni si gioca davvero tutto: se dovesse fallire si troverebbe senza alcun paracadute, avendo evitato una candidatura al parlamento, e con una base in rivolta, perché i bossiani, oggi acquattati e silenziosi, rispunterebbero fuori da tutte le parti. La richiesta di un congresso straordinario urgente è il minimo che l’ex ministro dell’Interno possa mettere in conto.
Basta vedere i profili Facebook di alcuni parlamentari uscenti per capire che dentro il Carroccio una sconfitta scatenerebbe l’inferno e la permanenza dell’ex ministro dell’interno alla segreteria sarebbe a fortissimo rischio.
Il rischio oggettivamente c’è. Umberto Ambrosoli si è rivelato un buon avversario, ha recuperato tantissimo e – anche se viene tacciato di essere troppo “milanese” – sta impegnando Maroni allo stremo. Tra i suoi supporters si è diffuso l’entusiasmo dopo il pienone in Piazza Duomo domenica 17, e la convinzione che il sorpasso sia possibile, se non addirittura già avvenuto, come sussurra qualcuno.
Dalla parte di Ambrosoli sta il fatto di non avere nemici a sinistra, perché alla Regione Lombardia non c’è alcun candidato di Rivoluzione Civile. Dalla parte di Maroni sta, invece, la ritrovata sintonia con Berlusconi, solennizzata dall’abbraccio sul palco della Fiera di Milano, dopo le minacciose parole pronunciate dal Cavaliere a Monza sulla possibilità di fare cadere le giunte del Nord se la Lega facesse i capricci dentro una rinnovata coalizione di governo.
Potrebbe però non bastare per via di una serie di incognite incontrollabili. La prima è il voto disgiunto, quello dei sostenitori di Monti a favore di Ambrosoli e a danno del candidato ufficiale Gabriele Albertini. Nessuno sa quantificare oggi quanto inciderà. Potrebbe essere una quantità di voti piccola, ma decisiva. Allo stesso modo decisivo – ma a favore di Maroni – potrebbe essere il ritorno all’ovile del centrodestra dei delusi di Oscar Giannino, dopo il caso del titolo accademico millantato dal fondatore di “Fare per fermare il declino”.
La Regione farà da traino al voto per il Senato, fondamentale per capire quale sarà la maggioranza possibile a Palazzo Madama. In Lombardia la coalizione vincente si aggiudica 27 senatori, tutti i perdenti si dividono i restanti 20. Contando alcuni seggi pro Grillo e pro Monti realisticamente i perdenti ne porteranno a casa 13 o 14. Lo scarto fra chi vince e chi perde è abissale, e indicherà gli spazi di manovra nel futuro Senato.
Senza la Lombardia la maggioranza sarebbe quasi impossibile. Una coalizione sarebbe d’obbligo, vista anche la catastrofica esperienza del 2006, quando il centrosinistra scommise sulla propria autosufficienza avendo un solo voto di margine, frutto del sostegno degli eletti all’estero. Una scommessa perdente, come si è visto, appena 18 mesi dopo.
Ma per il centrosinistra vincere al Senato in Lombardia potrebbe non essere automatico, neppure nel caso di affermazione nella contesa regionale. Diversa è la platea degli elettori, dal momento che per Palazzo Madama non votano i giovani fra i 18 ed i 21 anni. Diverso lo scenario delle alleanze, perché nella contesa politica è presente la lista di Ingroia ed altre formazioni minori. Nella lista del Pdl, poi, i primi due nomi sono quelli di Silvio Berlusconi e Roberto Formigoni, due garanzie in termini di attrazione dei consensi, nonostante tutte le polemiche che li hanno visti coinvolti.
Lotta all’ultimo sangue, dunque, anzi all’ultimo voto. Mobilitazione massima fra i militanti leghisti, come fra quelli di sinistra. Meno, oggettivamente, per quanto riguarda i supporters di Berlusconi. La duplice corsa lombarda verrà decisa per un pugno di voti. Quei voti che potrebbero decidere chi governerà l’Italia, quasi come quei 24mila che divisero le due coalizioni sette anni fa.