Gli ultimi due decenni di storia di Alitalia sono stati un elenco ininterrotto di errori di politica industriale e di strategia e gestione aziendale. Nessuno ha mai preso una decisione giusta, neanche per sbaglio. E le poche volte in cui qualcuno stava perseguendo una scelta giusta è stato prontamente criticato, stoppato e rimosso. Mi riferisco al progetto di aggregazione con Klm predisposto alla fine degli anni ‘90 dall’amministratore delegato Domenico Cempella e all’accordo di vendita al gruppo Air France-Klm raggiunto dal governo Prodi all’inizio del 2008.
A fine aprile scorso i lavoratori hanno detto No in massa all’accordo impresa-sindacati sul contenimento del costo del lavoro e la ricapitalizzazione dell’azienda da parte dei soci e questi ultimi hanno restituito le chiavi di Alitalia al governo che ha nominato tre commissari. Nell’occasione sono state fatte scelte corrette o errate? Vediamo prima i lavoratori, poi i soci, infine il governo. I lavoratori hanno smentito con due terzi di no dei votanti la posizione dei sindacati e hanno detto No a due cose distinte ma proposte in un unico pacchetto. In primo luogo, all’ulteriore riduzione del personale e contenimento salariale, pur se stabilite in misura molto attenuta rispetto alle richieste aziendale iniziali.
Non gli si può dare proprio torto. Il costo del lavoro pesa ormai solo un sesto dei costi operativi totali di Alitalia e non è mai stato così basso nella sua storia, così come nella storia di nessun’altra compagnia di bandiera o di tipo tradizionale. Il peso del lavoro sui costi industriali di Alitalia è esattamente pari alla quota di mercato di Alitalia, corrispondente a un sesto dei passeggeri totali che volano sui cieli italiani. Sono entrambe piccole e sostanzialmente trascurabili. Nel 2009-11, i primi anni della gestione Cai, il peso del costo del lavoro era invece pari o superiore a un quinto, pertanto si è ridotto nel tempo. Questi risparmi, derivanti da precedenti sacrifici dei lavoratori, non sono andati tuttavia a migliorare il conto economico, che è anzi peggiorato, bensì a finanziare l’aumento di altre voci di costo. Infatti, la flotta, principalmente leasing e manutenzioni, pesa ora per un quarto dei costi industriali, mentre nel 2009, al debutto di Alitalia privata, pesava solo per un quinto. I risparmi realizzati nel tempo sul personale sono stati integralmente spesi in maggiori costi della flotta.
In secondo luogo, col loro No i lavoratori hanno rigettato un fantasioso piano d’impresa che prometteva di aumentare in pochi anni i ricavi del 30%, nonostante la messa a terra di un sesto degli aerei della flotta, e nello stesso tempo di abbattere significativamente i costi. Uno strano piano di austerità espansiva che abbiamo già avuto occasione di analizzare in precedenza.
A seguito dell’esito negativo del referendum sull’accordo sindacale gli azionisti attuali non hanno voluto ricapitalizzare l’azienda e in conseguenza dell’esaurirsi della cassa hanno chiesto al governo l’amministrazione controllata. Non possiamo criticarli per questa scelta, accontentandoci di farlo per tutte le loro precedenti scelte gestionali. Il governo poteva nominare da uno a tre commissari e ha scelto di nominarne tre. Ha fatto bene? Direi di sì in quanto le competenze richieste sono molteplici e riconducibili a tre distinte aree: contabili-gestionali, giuridiche e industriali. Le prime due sono essenziali per la stabilizzazione dell’azienda e la diagnosi dei suoi problemi; la terza è indispensabile per l’individuazione dei possibili esiti post-commissariamento e la valutazione dei vantaggi e svantaggi di ognuno. Tre competenze differenti giustificano pertanto la scelta di tre commissari anziché di uno solo.
Ma quali caratteristiche debbono avere i commissari? Essenzialmente due: indipendenza e competenza. L’indipendenza richiede di essere “super partes” e dunque di non avere legami con chi ha gestito prima, avendo anche il compito di valutarne l’operato e verificare che non siano state compiute irregolarità o sottratte risorse nell’ambito di rapporti infragruppo. Bisogna allora dire che mentre il criterio della competenza è stato pienamente rispettato, quello dell’indipendenza lo è stato solo in parte. Infatti, due commissari su tre hanno legami professionali o sono espressione di azionisti importanti di Alitalia. Si tratta degli azionisti che non hanno messo più un soldo per il rilancio dell’azienda. ma hanno invece indicato, ascoltati dal governo, due commissari su tre. In un Paese normale questo non sarebbe avvenuto. E invece i contribuenti, che ci han messo 600 milioni di “prestito” ponte, quanti commissari hanno indicato?
Arriviamo in questo modo al tema del “prestito ponte” che prestito in realtà non è, bensì è sovvenzione, dato che andrà inevitabilmente perduto nella prossima gestione commissariale. Come tale è anche un aiuto di Stato e sarebbe stato corretto avviare la procedura di autorizzazione presso la Commissione europea. Molti sostengono l’inopportunità di mettere altri soldi pubblici in Alitalia, tuttavia l’alternativa non è dare altri soldi del contribuente ad Alitalia o non farlo, bensì metterli in Alitalia o fuori da Alitalia, per sostenere necessariamente i dipendenti che perdono il lavoro a seguito della crisi aziendale. L’obiettivo corretto deve essere pertanto di minimizzare l’esborso pubblico e di renderlo il più efficace possibile, ben sapendo che esso non è recuperabile. Al momento attuale è tuttavia ragionevole mettere soldi per garantire la continuità dei voli e dar tempo ai commissari di metter mano ai conti aziendali. Se Alitalia non smette di volare la speranza è di trovare un nuovo compratore che si comprerebbe, assieme ai pochi aerei di proprietà, soprattutto gli slot aeroportuali che Alitalia usa e i passeggeri che essa trasporta. Se invece Alitalia smette di volare gli slot decadono e altri vettori si prendono gratuitamente tanto gli slot quanto i passeggeri, mentre ai creditori dell’azienda resta solo un enorme passivo patrimoniale.
Un altro motivo che giustifica la scelta di metter soldi pubblici è che nei prossimi sei mesi circa dodici milioni di passeggeri contano di prendere voli Alitalia e di essi una parte avrà presumibilmente già prenotato e pagato. Se Alitalia smette di volare questi ultimi perdono il diritto al viaggio e i soldi spesi e tutti quanti debbono cercarsi un posto su altro vettore. È fattibile? Sui voli europei su cui Alitalia ha meno del 10% del mercato il passaggio a un’altra compagnia dovrebbe essere abbastanza facile, a parte il fastidio di dover pagare due volte il biglietto, ma sui voli nazionali sui quali Alitalia ha ancora più del 40% del mercato la possibilità di trovare posto su un altro vettore non è verosimile se non per una minoranza di clienti. Vi è dunque anche un problema di garanzia di un servizio pubblico, non potendo pensare che per tutte le tratte si possa ritornare a viaggiare in treno.
Garantiti i fondi necessari per continuare a volare stupisce tuttavia l’elevato tasso “di mercato” al quale sono stati concessi, prossimo al 10% annuo. Che si tratti di un’erogazione “di mercato” è un falso clamoroso, dato che nessun soggetto di mercato presterebbe a nessun tasso soldi a un’azienda insolvente. Così com’è un falso clamoroso sostenere che l’azienda sarà in grado di restituire il prestito e di pagarci sopra interessi così elevati. Era molto meglio allora richiedere l’autorizzazione comunitaria a un aiuto di Stato, giustificato dalle esigenze di continuità del servizio pubblico nazionale, e applicarvi un tasso agevolato, considerando che comunque il Tesoro è in grado di finanziarsi a breve termine a tassi prossimi allo zero.
Nominati i tre commissari, cosa dobbiamo ragionevolmente attenderci da essi? In primo luogo, che verifichino i conti della gestione. Siamo ormai a inizio maggio e nulla si sa del bilancio Alitalia del 2016, né dei primi quattro mesi dell’anno in corso, tranne le indiscrezioni su perdite record uscite sui giornali. Se conoscessimo il bilancio potremmo capire molto di più su cosa non va in Alitalia. Possibile che la crisi in corso sia stata gestita senza che nessuno abbia chiesto all’azienda di rendere noto il bilancio? Dai dati pubblicati dall’Enac sappiamo che nel 2016 i passeggeri sono rimasti stabili. Dunque il peggioramento del risultato economico deriva da una caduta dei proventi per passeggero oppure da una lievitazione dei costi, che tuttavia non si è verificata in nessun altro vettore europeo. Sarebbe molto interessante saperlo con esattezza.
Con eguale impegno i commissari dovranno fare luce sulle ragioni che hanno portato al dissesto, altrettanto incomprensibili ai cittadini e agli esperti del settore, stupiti che Alitalia sia andata così male in anni in cui tutti gli altri vettori europei, low cost e tradizionali, sono andati così bene. Dovranno anche rassicurarci sul fatto che i rapporti economici tra Alitalia ed Etihad non abbiano ingiustamente danneggiato la prima e avvantaggiato la seconda. Un caso sospetto è, ad esempio, la cessione di cinque coppie di slot che Alitalia ha passato a Etihad negli accordi del 2014 a un prezzo globale di 60 milioni di euro e unitario di 12. Nel 2007 l’Alitalia pubblica guidata da Maurizio Prato aveva già ceduto tre coppie di slot, ottenendo tuttavia un provento globale di 92 milioni di euro e unitario di 30,7.
Utilizzando due testate specializzate abbiamo provato a ricostruire tutte le cessioni di slot a Heathrow avvenute nell’ultimo decennio e di cui è stato pubblicato il prezzo. Esse sono riportate nella tabella sottostante. Come si può vedere in nessun caso il prezzo è mai sceso al di sotto del valore unitario ottenuto da Alitalia nel 2007 e in un paio di casi ha superato i 60 milioni a coppia. Vi sono due sole eccezioni che riguardano entrambe Etihad come acquirente e aziende da essa partecipate come venditore: oltre all’acquisto da Alitalia, ve n’è infatti un altro che ha riguardato l’indiana Jet Airways, ma in questo caso il prezzo unitario è stato di 18 milioni. Se si escludono tali transazioni, il prezzo medio delle rimanenti è di oltre 38 milioni l’una, 26 in più di quanto pagato da Etihad. Pertanto mai slot di Heathrow risultò meno caro nell’ultimo decennio rispetto a quelli che Etihad ottenne da Alitalia. Fu vero prezzo di mercato? La nostra tabella sembrerebbe dirci di no. Ed Etihad sembrerebbe aver risparmiato per cinque volte 26 milioni, per un totale di 130 milioni.