Ci mancava soltanto l’influenza suina. Sì, perché al di là dei timori per la salute, la pandemia in Gran Bretagna rischia di portare una contrazione del Pil del 7,5% tra minore produttività per le assenze dei lavoratori e crollo delle vendite al dettaglio. Governo e Bank of England, purtroppo, stanno già facendo i conti al riguardo.
E un altro paese che di carestie seguite a epidemie se ne intende, l’Irlanda, non sta meglio. Anzi. Gli ultimi dati reali che arrivano dall’ormai ex “tigre celtica” fanno rabbrividire e mettono a serio repentaglio non solo la riuscita del nuovo referendum sul Trattato di Lisbona, ma la tenuta stessa dell’Ue. Vediamoli.
Il primo ministro Brian Cowen ha già dovuto varare due budget di emergenza per bloccare il deficit che stava salendo al 15% del Pil ma non è stato sufficiente. Stando a un report presentato venerdì dall’An Bord Snip occorre tagliare ancora – e pesantemente – pena una mortale trappola del debito. Altri 17mila posti di lavoro statali verranno tagliati, nonostante il tasso di disoccupazione sia già al12% e punti entro fine anno al 16%. I tagli maggiori saranno nel comparto dell’istruzione, un 8% netto con decine e decine di scuole rurali che chiuderanno e 6900 insegnanti licenziati: addio ricerca, addio educazione.
Addio futuro. I tagli al welfare saranno del 5%, quelli ai benefit per l’infanzia del 20% e il Garda – la polizia irlandese – dopo aver visto ridurre le paghe giornaliere del 7%, vedrà ora gli agenti obbligati a pagarsi la divisa. Sembra follia in un paese che fino a tre anni fa era additato a miracolo economico mondiale. Una degenza in ospedale arriverà a costare 107 euro al giorno: questa è la situazione, numeri alla mano. E i violentissimi scontri confessionali scoppiati venerdì notte ad Ardoyne parlano la lingua di una pace in Irlanda del Nord ottenuta annegando di soldi le sei province e che ora traballa sotto il peso della crisi: la maggior parte degli investimenti, nonostante si tratti di territorio britannico, arrivavano infatti dalla Repubblica d’Irlanda e dagli Usa, i quali ovviamente ora tagliano e chiudono. Un ritorno del terrorismo, a queste condizioni, non dovrebbe stupire nessuno.
Ma se l’Irlanda sta male la Spagna non sta meglio, soprattutto dopo la decisione del gigante statunitense Gmac di scaricare a un prezzo di sconto del 14,5% sul valore nominale di ogni dollaro le securities legate a mutui nel paese iberico: chiaro segnale che il mercato sta letteralmente per crollare in Spagna, con pesanti ripercussioni per i creditori stranieri, Francia e Germania in testa.
E parlando di Germania è di domenica la conferma da parte dell’amministratore delegate di Hypo Real Estate attraverso un’intervista al Welt am Sonntag che il gruppo necessita subito di almeno 10 miliardi di euro o rischia di andare a gambe all’aria: «Non mi stupirebbe che quella cifra, alla fine, non risultasse nemmeno sufficiente», ha dichiarato Michael Endres.
Il problema è che Hypo è già stata salvata in ottobre con 50 miliardi di euro dallo Stato ma ancora oggi siede su qualcosa come 268 miliardi di euro di potenziali assets tossici. Auguri. Non sta meglio Landesbanke Hsh Nordbanke, nazionalizzata, costretta a chiedere nuovi fondi dopo i 3 miliardi di euro ricevuto dalla città di Amburgo e dal Land del Schleswig-Holstein: peccato che il deficit combinato dai vari Lander, a furia di spesa pubblica, abbia toccata quest’anno i 30 miliardi di euro, l’1,5% per del Pil.
Non siamo certo ai livelli della California in bancarotta ma c’è poco da stare allegri. In compenso l’integerrimo ministro delle Finanze, Peter Steinbruck, continua a bollare come «non necessario» lo stress test sul modello di quello americano richiesto dal Fondo Monetario Internazionale per le banche europee: una cosa è bacchettare gli altri, un’altra farsi guardare in casa. Complimenti.
Per il resto, la Francia rischia di perdere il suo rating AAA se continuerà nel progetto di stimolo fiscale travestito da investimento attraverso il suo maxi-bond miliardario che porterà il deficit al 90% del Pil e l’Italia punta dritta, per il prossimo anno, verso il rapporto debito/Pil del 120%, confermato dal Tesoro.
Come vedete, questa volta sono stato più breve del solito e non mi sono concesso le digressioni che qualche lettore mi contesta: solo cifre. Inoppugnabili. E dalle quale non giunge alcun segnale di ottimismo.