Nella catechesi (quasi) quotidiana che papa Francesco sta componendo con le sue brevi omelie alla messa mattutina in Santa Marta, commentando ieri il Vangelo del centurione che chiede con umiltà e fiducia la guarigione del servo e la lettera di San Paolo a Timoteo, ci ha invitato a “riflettere sul servizio dell’autorità”. E lo ha fatto, con la solita efficacia enucleando almeno tre punti.
Punto primo. Papa Francesco ha innanzitutto ricordato che “le due virtù di un governante” sono l’amore per il popolo e l’umiltà: “Non si può governare senza amore al popolo e senza umiltà! E ogni uomo, ogni donna che deve prendere possesso di un servizio di governo, deve farsi queste due domande: ‘Io amo il mio popolo, per servirlo meglio? Sono umile e sento tutti gli altri, le diverse opinioni, per scegliere la migliore strada?’ Se non si fa queste domande il suo governo non sarà buono. Il governante, uomo o donna, che ama il suo popolo è un uomo o una donna umile”.
C’è in questo richiamo così semplice da apparire quasi scontato una potenza d’indicazione che a me pare non ancora colta nella sua importanza e che vale la pena sottolineare. Questo Papa dopo qualche decennio, e proprio perché arriva “dalla fine del mondo”, riporta all’ordine del giorno del discorso pubblico anche europeo una parola dimenticata, anzi, censurata, silenziata, la parola “popolo”. Non utenti, non consumatori, non attivisti, non elettori e neppure cittadini, questo Papa argentino parla ogni giorno di popolo e ogni giorno parla al popolo (basta partecipare ad uno qualsiasi dei suoi appuntamenti per scoprirne la palpabile evidenza).
In un libro che è un vero manifesto della sua visione civile e politica (“Noi come cittadini, noi come popolo”, Jaca Book), Bergoglio scrive “Non basta l’appartenenza alla società per essere pienamente cittadino (…) stare in una società e appartenerle in quanto cittadino, nel senso di ordine è un grande passo di funzionalità. Ma, la persona sociale acquisisce la sua piena identità di cittadino nell’appartenenza a un popolo. Questa è la chiave, perché identità è appartenenza al popolo dal quale si nasce e nel quale si vive”. È un richiamo potente per tutti, questo, ma in particolare per chi è chiamato a governare e perciò è anche chiamato ad ascoltare questa identità viva, facendo i conti con una storia che lo precede e che lo oltrepassa. “Amare il popolo” in una posizione di “umiltà”, significa essere coscienti di questo, essere coscienti che il governo è un servizio, temporaneo.
In questo richiamo di Bergoglio nell’omelia di ieri, risuona il grande discorso di Benedetto XVI al Parlamento tedesco di due anni fa (22 settembre ’11), un discorso che si concludeva così: “Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che quello che domandò Salomone: Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male”.
Punto secondo. Se i governanti devono amare il popolo, allo stesso tempo i cittadini non possono disinteressarsi della cosa pubblica, è il secondo richiamo del Papa. “Un buon cattolico si immischia in politica − spiega Francesco − offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. I cittadini quindi non possono non curarsi della politica: “Nessuno di noi può dire: ‘Ma io non c’entro in questo, loro governano…’. No, no, io sono responsabile del loro governo e devo fare il meglio perché loro governino bene e devo fare il meglio partecipando nella politica come io posso. La politica, dice la Dottrina Sociale della Chiesa, è una delle forme più alte della carità, perchè è servire il bene comune. Io non posso lavarmi le mani, eh? Tutti dobbiamo dare qualcosa!”.
“Forse” – ha proseguito il Papa – “il governante, sì, è un peccatore, come Davide lo era, ma io devo collaborare con la mia opinione, con la mia parola, anche con la mia correzione” perché tutti “dobbiamo partecipare al bene comune!”. E rivolto ai cattolici ha concluso: “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. Se nessuno deve disinteressarsi della politica, un “buon cattolico” deve addirittura “immischiarsi”, interessarsi, mettersi in mezzo, perché nessuno più di lui dovrebbe avere più a cuore il bene di tutti, il bene del popolo. Mettersi in mezzo, dare qualcosa, rompere le scatole, proporre, dar conto delle proprie ragioni in un dialogo vero.
Si potrebbe continuare a lungo nel dettagliare tutte le suggestioni di quel “immischiarsi”. A me, però, questo invito del Papa ha ricordato l’impeto di una ragazza senese della seconda metà del Trecento. Santa Caterina da Siena che non se ne stava in disparte a sparlare o a lamentarsi, ma si metteva in mezzo con le sue missive, con il suo corpo, con i suoi viaggi. In mezzo non a piccole beghe di partito, ma tra Stati, città, fazioni. È bellissima una delle sue lettere raccolte in un libro che consiglio a tutti, La città prestata, e indirizzata ai difensori della città di Siena. Vi scrive: “Signoria prestata sono le signorie delle cittadi o altre signorie temporali, le quali sono prestate a noi e agli altri uomini del mondo; le quali sono prestate a tempo, secondo che piace alla divina bontà, e secondo i modi e i costumi de’ paesi: onde o per morte o per vita elle trapassano. Sicché per qualunque modo egli è, veramente elle sono prestate. Colui che signoreggia sé, la possederà con timore santo, con amore ordinato e non disordinato; come cosa prestata, e non come cosa sua”.
Ecco come “un buon cattolico” si deve “immischiare” e mettersi in mezzo alla politica, così, ricordando a lui stesso e a tutti che la città è cosa prestata e non cosa sua. Che rivoluzione se ci immischiassimo con questa consapevolezza!
Punto terzo. Infine, il Papa si domanda: “Ma qual è la cosa migliore che noi possiamo offrire ai governanti? La preghiera! È quello che Paolo dice: ‘Preghiera per tutti gli uomini e per il re e per tutti quelli che stanno al potere’. ‘Ma, Padre, quella è una cattiva persona, deve andare all’inferno…’. ‘Prega per lui, prega per lei, perché possa governare bene, perché ami il suo popolo, perché serva il suo popolo, perché sia umile!’. Un cristiano che non prega per i governanti, non è un buon cristiano!”. Dunque – conclude il Papa – “diamo il meglio di noi, idee, suggerimenti, il meglio, ma soprattutto il meglio è la preghiera. Preghiamo per i governanti, perché ci governino bene, perché portino la nostra patria, la nostra nazione avanti e anche il mondo, che ci sia la pace e il bene comune”.
Divo Barsotti, sacerdote e grande poeta, amava dire che la preghiera è il lavoro del cristiano perché è la preghiera il lavoro dentro ogni lavoro, è lì che il cuore chiede, mendica sporgendosi su una presenza misteriosa eppure già evidente e di cui si percepisce l’opera, l’azione. Il Papa ci ha testimoniato quanto sia totale la sua fiducia nell’efficacia della preghiera quando ha convocato tutto il mondo e tutti gli uomini di buona volontà a pregare per la pace lo scorso 7 settembre, quando il timing delle operazioni militari era già scritto e operativo.
Tutti siamo rimasti sorpresi, partecipando con la nostra poca o tanta fede, dell’efficacia di quella preghiera di milioni e milioni di persone. Papa Francesco sa che il Padre nostro ascolta un cuore sincero che domanda (come quello del centurione che chiede con umiltà e fiducia) e sa anche che un cuore sincero che domanda ha già cambiato il mondo. C’è allora invito più ragionevole, in questo particolare frangente, che quello di pregare per chi governa?