I risultati elettorali – eloquenti, a riguardo, le cartine viste su tutte le principali reti televisive – mostrano come le scelte dei votanti siano state fortemente orientate dalle differenze di sviluppo e di prospettive economiche nelle macro-regioni italiane: al Sud il Movimento 5 Stelle ha riportato una vittoria schiacciante, diventando, per numero di seggi, la maggiore forza parlamentare; al Nord il centrodestra, a trazione leghista, ha vinto alla grande, raggiungendo, a livello nazionale, la maggiore percentuale di voti, più del M5S, ma divisa tra più partiti; il centrosinistra del Partito democratico è stato sconfitto anche nei suoi territori tradizionali, ma, al margine, resta determinante per la formazione di una maggioranza parlamentare; la sinistra con forti richiami ideologici è quasi sparita.
Si può dare, per così dire, “uno sguardo dal ponte” che indichi quella che potrebbe essere una maggioranza e un Governo di legislatura di cui l’Italia ha quanto mai esigenza per rinvigorire la pallida crescita economica, riequilibrare le forti differenze di sviluppo e affrontare anche le imminenti scadenze europee? A mio avviso, alchimie come “governi di scopo” per tornare alle urne tra qualche mese, se possibile con una nuova legge elettorale, servirebbero poco, ove non pochissimo, perché i dati sono eloquenti. La debacle della sinistra ideologica e la dura sconfitta dello stesso Pd (che ha sempre mantenuto richiami ideologici pur nel suo processo di affrancamento dalle radici delle sue componenti iniziali) mostrano che anche l’Italia è entrata in una fase politica post-ideologica in cui ciò che conta sono i programmi e i risultati.
Nell’ultimo quarto di secolo, il Sud e le Isole (ossia il Mezzogiorno) hanno avuto scarsa rappresentanza, e voce, nei Governi nazionali che si sono succeduti alla guida del Paese, mentre nella cosiddetta “prima Repubblica” ne ha sempre avuto una forte, anche se non tale da assicurare, anche a ragione del malfunzionamento delle autonomie locali e dell’estesa criminalità, ai territori coinvolti una crescita accelerata e tale da ridurre il divario con il Centro-Nord. Dal 2008, la situazione si è aggravata: a fronte di una contrazione del Pil nazionale del 10% certificata dalle statistiche Ocse (nonostante la ripresina in atto presentata come vanto dai Governi Renzi e Gentiloni), il Pil pro capite del Mezzogiorno ha perso l’11,3% rispetto al 5,8% nel Nord. Oggi il Pil pro-capite del Mezzogiorno è inferiore a quello della Slovenia, della Slovacchia e della Repubblica Ceca.
I dati della Commissione europea documentano che le regioni di tutta l’Unione europea più fortemente colpite dalla disoccupazione giovanile sono la Calabria (59%), la Sicilia (57%) e la Sardegna (56%). Rispetto a un’occupazione femminile che sfiora al 60% al Nord, nel Sud meno di un terzo delle donne ha un lavoro. La dotazione in infrastrutture al Nord (secondo i calcoli della Banca europea degli investimenti) è quattro volte quella del Sud. Allo scarso capitale fisico si associa un’emorragia di capitale umano: dal 2003 un terzo degli studenti universitari del Mezzogiorno o ha lasciato la propria università (scontento della bassa qualità) o è definitivamente emigrato. Uno studio sulla scarsa produttività in Italia curato da dodici economisti della Banca d’Italia (Bank of Italy Occasional Paper No. 422) non solo sottolinea il divario di produttività tra Mezzogiorno e resto del Paese, ma conclude che le normative degli ultimi anni su mercati dei prodotti e del lavoro offrono qualche “barlume di speranza”, mentre “le misure relative ad altri fattori determinanti per la produttività non hanno avuto sino ad ora efficacia”.
Uno sguardo su questi indicatori mostra che ora come non mai è necessario un governo che abbia come obiettivo principale una nuova “unificazione nazionale” economica e sociale. Non che le Regioni, le amministrazioni pubbliche e la società civile del Mezzogiorno non abbiano responsabilità nel divario. Ma come documentò circa trent’anni il Rapporto Amato, commissionato dalle commissioni Bilancio del Parlamento, se il “problema Mezzogiorno” non diventa centro unificante della politica economica e sociale del Paese il divario porterà – com’è avvenuto – a una spaccatura politica dell’Italia.
Le forze politiche che hanno vinto le elezioni hanno l’onere di affrontare e tentare di risolvere questo nodo vitale. Non possono farlo come lo fece la Germania negli successivi alla caduta del Muro di Berlino sia perché lo stesso Centro-Nord, pur se ha una produttività significativamente superiore a quella del Mezzogiorno, non ha livelli pari a quella dei Länder occidentali tedeschi che permisero forti trasferimenti a quelli orientali, sia perché ci sono maggiori vincoli europei, sia infine perché la nostra finanza pubblica e il nostro debito pubblico rendono difficili finanziamenti di rilievo al Sud.
Ci sono, però, azioni che un Governo “per l’unificazione nazionale” può intraprendere in cui il M5S e il centrodestra possono convergere: maggior controllo del territorio e sicurezza, programmi per bloccare l’immigrazione clandestina (e per espellere quella già in Italia), regole che migliorino la qualità dell’istruzione a tutti i livelli, ma con particolare accento su quella delle università, lotta alla criminalità, infrastrutture a elevato rendimento e tali da incidere positivamente sulla produttività.
Questi potrebbero essere gli elementi di un programma di legislatura che, tenendo conto dei vincoli di finanza pubblica, dovrebbe essere affinato tra le due forze politiche giungendo, come nelle grandi coalizioni tedesche, anche a disegni di legge concordati e condivisi. È indubbiamente un sentiero difficile anche perché la Presidenza del Consiglio è contesa tra due leader – problema a mio avviso risolvibile facendo un “patto della staffetta”, come quello tra Craxi e De Mita.
Le altre alternative sembrano più complesse, di breve durata e tali da aggravare la situazione economica e sociale del Paese.