Caro direttore, da simpatizzante attivo all’estero della lista “Fare per Fermare il Declino” e di Oscar Giannino sono stato profondamente deluso dagli eventi che hanno portato alle sue dimissioni. Mi pare innegabile che il movimento di Oscar Giannino sia l’unica novità reale nel panorama politico italiano attuale. Ogni elettore che si consideri largamente “liberale” e che non si ritrovi né nelle politiche basate sull’austerità, né in quelle basate sulla fantasia sbrigliata non può non aver salutato con favore la nascita di Fare per Fermare il Declino.
Il giudizio di infecondità espresso da un lettore due giorni fa mi pare quantomeno prematuro, posto che non sappiamo ancora i risultati delle elezioni, né come continuerà questa esperienza all’indomani del voto. Quello che sappiamo per ora è che il leader del movimento si è dimesso a fronte di dichiarazioni false circa le sue credenziali accademiche. Che il fatto in sé costituisca una grave perdita di credibilità personale di Oscar Giannino è innegabile. Ma che questo automaticamente costituisca una perdita di credibilità del programma del movimento è discutibile e frutto di una certa superficialità con cui siamo soliti misurarci con la res publica, come ha ben evidenziato Simone Invernizzi citando la folla del Manzoni.
Vorrei tuttavia proporre qualche riflessione sul significato di quanto accaduto a Giannino. La domanda che mi sono fatto quando ho letto dell’accaduto suona più o meno così: perché il leader di un movimento in ascesa, caratterizzato da un programma solido e ben articolato, si è rovinato con una leggerezza del genere? In altri termini, perché uno che, di fatto, non ne aveva assolutamente la necessità ha avvertito il bisogno di mentire riguardo a un titolo accademico che non ha e, in particolare, un titolo accademico conseguito all’estero? Vanità, direte. Certamente, ma la vanità è un concetto generico. Avrebbe potuto esprimere la propria vanità altrimenti, come ciascuno di noi, nel suo piccolo, è incline a fare. Perché la vanità generica (che caratterizza tutti noi) si è declinata specificamente in questa bugia?
La prima linea di risposta non può che vertere sul desolante provincialismo che da decenni infesta le menti degli italiani, anche dei più brillanti. Siamo stati cresciuti pensando che il vero prestigio, il vero merito, la vera ricerca, insomma, che tutto ciò che vale sta all’estero. Che noi siamo mediocri e gli altri sono grandi. Ma è davvero così? Io ho vissuto quattro anni in Germania, dove ho conseguito un dottorato (per davvero!), e ora da quattro anni sono titolare di una cattedra in università negli Stati Uniti. Sinceramente, e con buona pace di tanti cervelli fuggiti che amano sputare veleno, mi sento di affermare che: (1) non mi sarebbe stato possibile nulla di tutto ciò se non avessi ricevuto l’istruzione eccellente (e pressoché gratuita) che il sistema italiano mi ha garantito per circa vent’anni; (2) il prestigio e la millantata superiorità delle università estere, in particolare delle business schools, per quanto mi riguarda va ponderata per bene. Le apparenze a volte ingannano.
Ho un amico che ha frequentato uno dei più “prestigiosi” MBA in una delle più prestigiose università americane (anche lui per davvero!) al modico prezzo di circa centomila dollari all’anno. Mi ha raccontato divertito che per buona parte del primo semestre l’attività del master consisteva nel giocare a poker con alcuni dei campioni internazionali della disciplina reclutati e pagati dall’ateneo. Questo perché, dicono loro, le skills necessarie al businessman di successo sono identiche a quelle del grande giocatore di poker. Il fatto si commenta da solo.
Non entro in dettagli ulteriori, ma ho spesso l’impressione che queste “grandi”, “prestigiose” istituzioni dove ti insegnano il business in realtà siano primariamente dei generatori di networks, vale a dire, posti per conoscere gente e farsi conoscere da gente che in seguito ti farà un’offerta di lavoro. Nulla di male, ovviamente. Non ne metto in dubbio il valore. Tuttavia, la parte cinica di me a volte si trova a dubitare che esistano delle profonde e arcane verità del business che vengono segretamente rivelate agli accoliti paganti nei templi prestigiosi dell’economia all’estero. Forse esistono solo dei casi molto particolari che richiedono anzitutto il buon senso di chi li affronta, misto ad alcune capacità base in aritmetica e una spolverata di diritto. In ogni caso, ritengo doveroso in chi ci rappresenta cercare di non fomentare il provincialismo tristemente diffuso nella mentalità degli italiani, e piuttosto adoperarsi a mostrare, con le parole e le opere, che c’è tanto valore e prestigio nella formazione offerta in Italia.
La seconda linea di risposta è più profonda, sebbene sia direttamente legata alla prima. Perché occorre la credenziale accademica per poter essere ascoltato quando si parla di economia? Non bastano le buone idee? Qui si tratta di una concessione implicita (e per me intollerabile) al tecnicismo secondo cui solo gli iniziati ai misteri del business da un’istituzione prestigiosa sono nelle condizioni di intelligere ciò che per sua natura è inintelligibile ai comuni mortali. Ci siamo abituati ad accettare l’idea che la dimensione della realtà descritta dall’economia non sia una dimensione umana, ma una dimensione praticamente indistinguibile dal mondo della natura, fatto di atomi, molecole, leggi che si possono esprimere solo con formule complicatissime, ecc.
Ogni giorno accettiamo quietamente di sorbirci dal telegiornale la nostre dose di inintelligibilità, fatta di acronimi di cui non sappiamo il significato (Nasdaq, FTSE-MIB, ecc.), di grafici impossibili da decifrare e di termini tecnici anglosonanti (perché quelli meramente altisonanti non erano sufficientemente prestigiosi.) Per noi è pacifico che queste cose non possiamo capirle perché sono complicate e solo chi ha un master della Chicago Booth è autorizzato a parlarne e prendersene cura. Io invece ritengo che una delle missioni della politica sia reclamare con forza ciò che ci appartiene: l’intellegibilità del mondo umano (e non naturale) descritto (e non creato) dall’economia.
Nel presente ne detengono le chiavi i professori prestigiosi delle business schools. A noi è dato solo di sperare che lo gestiscano con prudenza e continuare ad accettare la nostra intrinseca ignoranza. Tuttavia, questo mondo, che è il nostro, è stato deliberatamente riscritto in un linguaggio cifrato che lo ha rinchiuso in una roccaforte pressoché inespugnabile. Sono i nostri soldi, i nostri beni, i nostri prodotti, i nostri risparmi, il futuro dei nostri figli a essere sul piatto. Tutte cose nostre, quotidiane, perfettamente intelligibili. Abbiamo però lasciato che un muro di oscurità e tecnicismi venisse eretto tra noi e ciò che ci appartiene.
I demiurghi delle business school ci chiedono di restarne fuori e di essere fiduciosi, perché loro hanno le chiavi per oltrepassare il muro e gestire in nostro nome il modo umano nel quale si giocano i nostri destini terreni. E chi gliel’ha chiesto? È un privilegio che si sono abilmente auto-attribuiti. Dai politici che, invece, dovrebbero rappresentare noi, con i nostri voti, desidererei una decisa richiesta di abbattere il muro, di ritradurre nel linguaggio umano i linguaggi disumani che insegnano nei master delle business schools. Occorre, in sintesi, reclamare il mondo umano che è attualmente in ostaggio, si badi bene, non di persone in quanto tali ma di sustruzioni teoriche, tecniche e linguistiche che ne occludono e sfigurano la vera natura. Questo mi pare più urgente che reclamare masters che non si possiedono.
In conclusione, sebbene continuerò a seguire con interesse e simpatia gli sviluppi di Fare per Fermare il Declino, ritengo che sia ora più urgente riflettere sulle vere, profonde radici psicologiche e culturali che stanno dietro alla debolezza di Oscar Giannino e che riguardano tutti noi. Limitarsi a registrare l’incoerenza e la vanità di un altro significherebbe perdere una (altra) occasione.