La grande crisi esplosa nel settembre 2008 con il fallimento della Lehman Brothers ha avuto gli effetti di un terremoto che ha sconvolto gli assetti dell’economia, che ha messo a nudo le fragilità nascoste, che ha creato contraccolpi devastanti sul sistema finanziario mondiale. Le onde lunghe delle scosse telluriche continuano a propagarsi soprattutto nei paesi, come l’Italia, dove all’intrinseca debolezza di molti punti del sistema si è accompagnata l’incapacità o la non volontà di affrontare in tempo, e soprattutto nel giusto modo, i problemi sul tappeto. Il sistema bancario italiano si è trovato così in balia di una tempesta partita da lontano e che ha visto a fianco di istituti solidi e ben gestiti anche una serie di banche al servizio della politica da una parte e dei potentati locali dall’altra.
In Italia ci sono poco più di 600 istituti di credito: due grandi colossi, Intesa e Unicredit, una decina di banche di media dimensione, e un nugolo di piccole banche tra cui oltre 300 banche di credito cooperativo di carattere strettamente locale. Ebbene, la crisi delle banche italiane riguarda sette medio/grandi istituti di credito più una decina di piccole banche cooperative. I casi più rilevanti sono quelli delle quattro banche messe in liquidazione e commissariate nell’autunno 2015 (la Cassa di risparmio di Ferrara, la Banca delle Marche, Banca Etruria e la Cassa di risparmio di Chieti), del Monte dei Paschi di Siena e delle due banche popolari venete (Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca). Tutte queste banche sono accomunate da tanti problemi di fondo: sono state gestite male, sono state al servizio di interessi particolari, hanno nascosto per anni ai soci e al mercato la reale portata delle loro difficoltà. Ma nel loro insieme rappresentano poco più del 10% dell’intero sistema del credito, la parte più rilevante attribuibile alla banca senese.
Dal 2008 in poi gli altri paesi sono intervenuti con tempestività ed efficacia, oltre che con una grande quota di fondi pubblici, per mettere in sicurezza le banche ai primi segnali di crisi. Il perché lo spiega molto bene Marco Onado, tra i maggiori esperti italiani sui temi finanziari, ne “Alla ricerca della banca perduta” (Ed. Il Mulino, pagg. 280, €15), un libro in cui si analizzano con insieme con precisione e semplicità i motivi che hanno caratterizzato la grande crisi, gli imponenti salvataggi e la perdurante fragilità del sistema finanziario mondiale. “A dieci anni dall’inizio della crisi – conclude la sua analisi Onado – la finanza non si è ancora liberata dai suoi molti lati oscuri che limitano la crescita e insidiano il risparmiatore”.
L’Italia è rimasta per lungo tempo alla finestra convinta che le banche potessero ampiamente risolvere i propri problemi da sole. Il Governo si è mosso tardi e male. Dopo un lungo periodo di sostanziale disinteresse, accettando supinamente le sempre più stringenti regole europee, due anni fa ha spacciato per “riforma delle banche” l’obbligo imposto per decreto alle grandi banche popolari di trasformarsi in società per azioni: un piacere fatto ai grandi fondi finanziari internazionali che sono diventati i proprietari di istituti che da decenni avevano un rapporto diretto e privilegiato con i propri clienti e il proprio territorio.
Delle quattro banche messe in liquidazione, solo una (Banca Etruria) era una popolare, così come non era una banca popolare il Monte dei Paschi di Siena. E se le due banche popolari venete sono entrate in crisi, la ragione non sta tanto nel loro assetto giuridico, quanto in una gestione spregiudicata resa peraltro possibile dal fatto che, al contrario delle altre grandi popolari, non erano quotate in Borsa. In questi casi a essere violati sono stati gli articoli del codice penale oltre che le regole della sana finanza.
L’intreccio tra affari personali, interessi politici e cattiva gestione è stato micidiale, anche nell’aggravare di anno in anno i problemi senza farli venire alla luce. E infatti è al lavoro la magistratura, oltre che una commissione d’inchiesta parlamentare.