Il recente discorso del presidente della Bce, oltre alla pesante sbornia sui listini europei, ha portato un cambiamento non trascurabile nelle aspettative dei tanti che seguono questi listini con cadenza ormai giornaliera. Appena Mario Draghi, interrogato sull’acquisto dei titoli di Stato, ha pronunciato le fatidiche parole, “non ci sono limiti a priori sulla quantità”, da molte scrivanie si è levato un “l’ha detto!” che ha contagiato molti d’euforia, pur facendo storcere qualche bocca qua e là. Dopotutto, è stato lo stesso presidente Bce a dichiararlo: “C’è stata una voce di dissenso, lascio a voi indovinare di chi è”.
E questa è forse una notizia di grande portata; perché quello che oggi suona come un indovinello dalla risposta scontata, meno di un anno fa era un rompicapo capace di mettere in questione il futuro dell’Ue: all’epoca, infatti, l’ostilità all’acquisto di titoli pubblici (nel quadro delle prerogative di politica monetaria, come Draghi specifica appena possibile) non era una peculiarità solo tedesca. Oltre alla Bundesbank, il fronte del rigore fuori tempo massimo annoverava anche Francia, Austria, Olanda, Finlandia, Belgio, Slovenia, Slovacchia ed Estonia. Di nuovo quindi c’è che, mentre i tassi a zero virgola permettono ai land tedeschi di risolvere i propri problemi a colpi di emissioni pubbliche, agli ex del club dell’austerità i conti cominciano a non tornare più.
Oltralpe, è notizia di lunedì, più di un francese su cinque arriva a fine mese con il conto bancario in rosso, mentre la campagna elettorale olandese ha registrato un crescente fronte anti-rigore. In Belgio la crisi ha esacerbato la già difficile convivenza tra Fiamminghi e Valloni. Nelle Fiandre, terra fiamminga, la garanzia di Stato sulla disastrata Dexia, la banca francofona specializzata nel finanziamento di enti locali, sta assumendo sempre più connotati politici e le polemiche sul salvataggio pubblico sono destinate a proseguire: nel weekend, da Cernobbio, il Commissario antitrust Joaquin Almunia si è detto favorevole al rinnovo della garanzia in scadenza a fine mese.
Insomma, mentre a Draghi si può dare il merito di aver tenuto sulla linea dell’intervento monetario, il suo uditorio – governi, mezzi d’informazione, mercati, molti tra noi – sembra aver cambiato rotta e pare valutare l’attivismo Bce con toni più concilianti. Cos’è cambiato?
Intanto, il piano di interventi Bce prevede una “condizionalità”, ossia una fantomatica clausola secondo cui gli aiuti di Francoforte sono subordinati a tagli alla spesa. Insomma, per i paesi che ne faranno richiesta, il piano prevederà una sorta di scambio “credito per riforme”. Questa clausola ha senza dubbio ammorbidito la posizione del fronte rigorista. Ma, soprattutto, mentre i giudici della corte costituzionale tedesca lavorano alacremente e la Bundesbank rilascia dichiarazioni al vetriolo, a Berlino nessuno ha puntato i piedi. E i motivi sono due.
Primo. Mercoledì scorso il Tesoro tedesco non è riuscito a collocare l’intero slot di debito in agenda e si è accontentato di 3,6 miliardi al termine di un’asta tutt’altro che effervescente. Secondo, dietro ai tassi vantaggiosi a cui la Germania riesce a finanziarsi c’è un problema da 230 miliardi di euro di nome Landesbank. Che il settore finanziario tedesco non navighi in buone acque non è una novità, ma secondo dati Bundesbank l’ammontare di asset tossici a bilancio delle banche federali ha raggiunto la non trascurabile cifra di 230 miliardi di euro dall’inizio della crisi. Che presto o tardi dovranno essere coperti con soldi pubblici.
Un paio di dati aiutano a capire la portata del problema e probabilmente spiegano l’atteggiamento più conciliante di Berlino. L’ultima falla nel sistema creditizio tedesco risale a fine giugno, quando WestLB ha chiuso i battenti su richiesta della Commissione europea. La dismissione dei 168 miliardi di euro a bilancio della banca prevede una “bad bank” con garanzia di Stato e un programma di cessioni e fusioni che si spera rafforzerà il sistema bancario pubblico. Secondo il ministro federale Walter-Borjans, il tutto costerà ai contribuenti 18 miliardi di euro, da aggiungere agli 85 milioni di asset tossici già stralciati.
Il conto totale in realtà è molto più salato: nel 2008 il governo di Berlino aveva stanziato 80 miliardi di euro per ricapitalizzare le banche federali, con una garanzia pubblica a coprire 400 miliardi di prestiti in sofferenza. In questo valzer di soldi pubblici, WestLB era diventata una sorta di habitué al bail-out e l’aiuto di Stato era ormai talmente spudorato da smuovere persino i commissari europei. Per dare un’idea del cortocircuito finanziario che sta imperversando in Europa, basti sapere che al dissesto della già citata Dexia hanno contribuito perdite per 300 milioni di euro su un prestito alla tedesca Depfa. Quest’ultima ha una storia piuttosto emblematica: banca specializzata nei finanziamenti agli enti pubblici, nel 2002 sposta la propria sede a Dublino per beneficiare del trattamento fiscale, piuttosto favorevole, offerto dal governo irlandese. Con l’insolvenza di Depfa nel 2008, su cui la vigilanza bancaria di Dublino dovrebbe riflettere a lungo, il governo tedesco è subentrato come unico azionista, col risultato grottesco di ritrovare il ministero delle finanze al vertice di uno schema ideato per non pagare tasse in Germania.
Problemi isolati? Secondo dati Ocse, i tre elementi alla base della crisi bancaria tedesca sono tutti sistemici: forte dipendenza dalle garanzie di Stato, bassa capitalizzazione, scarsa supervisione. Con una logica conseguenza: chi reclamava a gran voce l’espulsione della Grecia dall’euro, oggi non è più così sicuro di poter gestire il rischio di un contagio.