Al di là del risultato personale, nient’affatto trascurabile, il voto di domenica per le europee impone alcune considerazioni.
La prima: a differenza di quanto sostiene la vulgata, gli italiani sono elettori maturi. Non hanno sbagliato alle politiche di un anno fa, quando hanno lanciato l’ultimo appello alla politica. Non hanno sbagliato domenica, smentendo i pronostici che davano in vantaggio la protesta e l’opzione anti sistema e scegliendo di votare per non distruggere l’esperimento europeo, che ha garantito a tutti sessant’anni di libertà, pace e prosperità. Non hanno sbagliato quegli imprenditori che pure ho incontrato e visto all’opera nelle settimane di campagna elettorale e che alla domanda “Vi conviene o no uscire dalla moneta unica?”, mi rispondevano decisi: “Se consideri che per realizzare i nostri prodotti importiamo il 60% delle materie prime, tornando ad una moneta nazionale svalutata chiuderemmo immediatamente!”.
Seconda considerazione: gli elettori italiani privilegiano proposte politiche chiare. Non radicali, ma chiare, non confuse, o equivoche. Berlusconi, dopo aver rappresentato per anni un punto di riferimento per tutti quegli elettori non di sinistra, ha esaurito la sua carica propulsiva. E non tanto per le sue vicende personali, quanto per il fatto che l’elettorato di riferimento non individua più una proposta che ne intercetti i legittimi interessi, se non l’esclusiva difesa del leader. E in questa involuzione Forza Italia non ha nemmeno chiarito che idea di Europa abbia. Quella che portò Berlusconi a ospitare al Campidoglio la firma della Costituzione europea o quella che vorrebbe uscire dall’euro? L’elettorato tradizionalmente berlusconiano, quindi, sembra essere trasmigrato verso i lidi renziani, in una contesa per cui sembrava prevalere lo schema “europeisti vs euroscettici”. Lo dimostra in particolar modo il risultato milanese, dove nella città che ha dato i natali all’esperimento “azzurro” del 1994, il Pd ha raggiunto il record storico del 44%.
Terza considerazione: non tutti gli europeisti sono uguali. Non tutti i partiti che difendono l’esperimento europeo hanno la stessa idea d’Europa. Oggi, per lo meno in Italia, con il Pd vince un’idea d’Europa socialista. Un’idea per cui le istituzioni comunitarie sono viste come grimaldello per modificare ciò che nel Bel Paese è immodificabile. Da questo punto di vista ho in mente stimatissimi colleghi del Consiglio comunale che, in qualità di avvocati e costituzionalisti, accompagnano a Strasburgo coppie di omosessuali che hanno contratto matrimonio in un altro paese membro, magari in Spagna, con l’obiettivo dichiarato di far condannare il nostro Stato perché non ne riconosce gli effetti anche all’interno del suo ordinamento nazionale.
È un’idea per cui l’Europa è una sovrastruttura che livella dall’alto le differenze presenti in basso. È, insomma, un’idea anti sussidiaria. Il contrario di una proposta politica di matrice popolare. Una proposta che, prima di evocare nostalgicamente glorie del passato, veicola quei contenuti economici e sociali per cui è indispensabile sottrarre quote di potere reale a vantaggio del popolo, nella sua molteplice espressione di famiglie, imprese, scuole, associazioni, ecc.
Nell’Europa dei prossimi anni, per intenderci, di cosa ci sarà più bisogno per rispondere ai 124 milioni di indigenti che la crisi economica lascia sul campo del vecchio continente? Del paradigma socialista del “tassa e spendi” o di un paradigma che riconosca anche a livello fiscale la peculiarità giuridica di quella straordinaria realtà che è il non profit e che lotta quotidianamente sul fronte del bisogno? Oppure: nell’emergenza per cui su oltre 500 milioni di cittadini comunitari solo 70 sono sotto i 25 anni, sarà bene perdere tempo in fumose discussioni sul concetto di famiglia o sostenere chi genera figli? E allora, se a tutte queste domande si risponde che c’è bisogno di una Europa popolare, ciò vuol dire che gli elettori italiani hanno bocciato questa opzione preferendole quella socialista del Pd?
Personalmente credo che uno dei principali problemi dell’attuale panorama politico italiano sia proprio l’assenza di un soggetto di chiara matrice popolare, specie da quando Renzi ha schierato il suo partito nel Pse – scelta che nemmeno Veltroni e Bersani hanno mai avuto il coraggio di compiere. La lista unitaria Ncd-Udc-Ppe rappresentava un timido tentativo in quella direzione. Tuttavia sia nel nome che nella grafica ha dato più l’impressione di essere un mero cartello per superare la fatidica soglia del 4%. E probabilmente solo per questo è stata realmente stimata dagli elettori.
Perché gli italiani, invece, possano tornare a riconoscersi in maggioranza in una simile proposta politica, occorre che quanti siedono in Europa tra i banchi del Ppe siano meno timidi e credano davvero in questa prospettiva. Occorre che tra questi quanti hanno le idee confuse sul valore dello stare in Europa e nell’euro se le chiariscano, magari riconoscendo i propri errori, e su questi presupposti siano disposti a tornare a costruire insieme. Le oltre 18 mila persone che hanno scritto il mio nome sulla scheda elettorale, insieme a quelle che hanno votato Pietro Sbaraini (altro candidato espressione dei Popolari per l’Italia), sono decisive perché anche nel Nord-Ovest scatti un seggio per Ncd-Udc-Ppe. Personalmente sono ben felice di un simile contributo apportato, purché il risultato non sia letto come il punto d’arrivo, bensì segni l’inizio di un nuovo soggetto politico che superi l’incomprensibile frammentazione dei cosiddetti moderati. Spero si possa parlare nei prossimi mesi di un “cantiere popolare”. E spero che non ci si limiti a raccogliere chi semplicemente non è socialista, ma si rilanci una storia ed una cultura politica all’altezza delle sfide sociali, economiche, geo e biopolitiche che si impongono sullo scenario della vecchia Europa. Altrimenti, per chissà ancora quanto tempo, gli elettori sceglieranno l’unico apparentemente in grado di reggere l’urto della furia anti sistema: il Pd di Renzi.