Questo articolo è la naturale prosecuzione di quello pubblicato martedì, quindi invito chi non lo avesse letto a farlo, prima di proseguire. Perché la saggezza popolare ci dice che, alla fine, i nodi vengono sempre al pettine. O, meglio, alla fine i bluff vengono sempre scoperti. Magari ci vuole del tempo, magari questo esercizio di disvelamento porterà con sé qualche mano persa, ma alla fine il baro, tale è e tale resta. Il baro di oggi è la Spagna. O, meglio, il suo sistema bancario. Come sapete, da sempre sono convinto che le banche iberiche siano tutt’altro che in salute – nonostante i rally in Borsa – e che i 41 miliardi dell’Ue per la loro ricapitalizzazione siano stati solo un brodino per un ammalato di broncopolmonite.
Ora ne ho la conferma. Da tempo, infatti, una domanda mi tormentava: come fanno le sofferenze bancarie spagnole a essere, nei fatti, ancora così relativamente basse, visto che il tasso di disoccupazione del Paese è il più alto dopo quello greco, sopra il 26%? Basti vedere la percentuale di sofferenze di Grecia, Cipro e Slovenia per capire che la dinamica spagnola – per quanto alta, siamo sopra il 12% del totale – si basi su un trucco contabile. Quale? Semplice, dal 2008 in poi, le banche iberiche non calcolano in maniera normale i crediti a rischio, ma se li rifinanziano loro stesse costantemente, facendoli così sembrava ancora “operativi”, quando invece il management sapeva benissimo che non c’era speranza alcuna di veder ripagati quei prestiti. Di più, le banche fornivano ulteriori prestiti che servivano soltanto per pagare gli interessi sulle sofferenze, un vero e proprio schema piramidale che se e quando dovesse collassare, porterebbe con sé un tale disastro da rendere totalmente inutile qualsiasi intervento di fondi salva-Stati o quant’altro Draghi possa inventarsi.
Già oggi, se le banche iberiche fossero oneste nella contabilizzazione delle sofferenze, pensate che i loro titoli viaggerebbe a quei livelli all’Ibex di Madrid? E lo spread spagnolo, starebbe placido in zona 230? Ma siccome ora, vista anche la supervisione della Bce e l’arrivo degli stress test, le banche spagnole devono ottemperare a linee guida molto più stringenti sull’accountability, frutto del salvataggio europeo, ecco che come per miracolo il numero delle insolvenze sui mutui immobiliari ha preso una dinamica e una velocità di crescita mai vista prima, cominciando a far aggrottare le ciglia agli investitori.
Nell’ambiente bancario spagnolo questo modo di agire era definito approccio “extend-and-pretend”, ovvero rifinanziare le sofferenze per non farle apparire tali e fornire prestiti sui prestiti per pagare gli interessi o, ad esempio, i conti delle carte di credito o le bollette ai clienti in difficoltà, quando non sulle soglie dell’insolvenza verso l’istituto stesso. L’esempio classico di quanto accaduto negli ultimi cinque anni a migliaia e migliaia di persone lo ha scovato il Wall Street Journal, intervistando il signor Diaz, 49enne account manager in una ditta che produce pompe idrauliche, il quale nel 2007 accese un mutuo da 600mila euro per una casa alla periferia di Madrid. All’epoca anche la moglie del signor Diaz lavorava, poiché gestiva un fast-food che faceva affari d’oro con gli operai dei cantieri edili della zona.
Quando però nel 2008 la bolla immobiliare scoppiò, il ristorante si ritrovò praticamente senza più clienti, gli incassi crollarono e per i signori Diaz pagare la rata del mutuo diventò un tormento, perché erodeva un parte sempre più sostanziale di quanto entrava mensilmente. Nel 2010, il signor Diaz chiese aiuto alla sua banca, Caixabank SA, la quale accettò di buon grado di rifinanziare il suo mutuo, abbassandogli anche la rata mensile e fornendogli anche un secondo mutuo di 32mila euro per pagare il conto della carta di credito e altre spese. Arrivato all’anno scorso, la situazione finanziaria del signor Diaz era tale che fu costretto a mettere mano ai risparmi di una vita per garantire un tetto alla moglie e ai suoi due figli. Nel mese di luglio del 2012, Diaz smise del tutto di pagare la rata del mutuo e rifiutò anche l’offerta della banca di un ulteriore periodo di “salvaguardia”, con un altro abbassamento della rata mensile. Perché? «Mi sono reso conto che pagare un mutuo è come avere il pane per oggi ma avere fame domani. Qualunque cosa succeda, che succeda adesso».
Pare una metafora, ironica ma amara, dei mercati di capitale in questi mesi di liquidità a costo zero: esattamente come il signor Diaz, sempre più investitori – basti pensare ai manager dei grandi fondi obbligazionari – vogliono che la Fed attivi il “taper”, che finisca la politica di manipolazione dei prezzi degli assets, versione finanziaria e globale dell’approccio “extend and pretend” delle banche spagnole e si torni alla realtà, «qualsiasi cosa succeda». Capito perché ritengo più che plausibile un attacco speculativo in grado di abbattere qualsiasi difesa? Perché il sistema bancario spagnolo è un vaso di coccio che pensa di avere un’anima di metallo ma è fragilissimo, poiché basato sui trucchi contabili: un soffio di vento e tutto viene giù.
Come spesso mi accade, ho chiesto al mio banchiere di riferimento, uno che ancora gestisce risparmio ed eroga credito, non gioca con i derivati, cosa pensasse del mio articolo di martedì. Ecco la sua risposta: «Scenario possibile, ma spero ormai poco probabile. I tedeschi hanno ottenuto quel che volevano e se non faranno marciare le altre due gambe dell’unione bancaria (meccanismo di risoluzione delle crisi e fondo unico di garanzia) si saranno tenuti le mani libere sulle loro banche. Così va il mondo nell’Europa del 2013…». Dunque, se la Germania otterrà mano libera sulle sue banche, ovvero supervisione a Berlino e non alla Bce, tutto potrebbe proseguire placido. Altrimenti…
Ma cosa avrebbe la Germania da temere tanto per i suoi sanissimi istituti di credito? Ne sa qualcosa il professore Christian Marazzi, professore e direttore di ricerca socio-economica presso la Scuola Universitaria della Svizzera Italiana, intervistato da Wall Street Italia. Eccolo: «I tedeschi sono terrorizzati di vedere svelati i bilanci delle loro banche, perché sono messi male. Si pensi che la Commerzbank è esposta per un quarto su attivi legati allo shipping e questo in un periodo in cui il commercio mondiale è in netta diminuzione e tutto il settore della logistica sta attraversando una vera e propria crisi da sovrapproduzione. Per questo, i tedeschi vorrebbero una supervisione dei bilanci condotta dalle autorità monetarie di ciascun Paese, appunto per gestire a modo loro questa crisi bancaria finora sempre mascherata. Quindi meglio sarebbe garantire la massima trasparenza ed evitare di essere accusati di metodi fraudolenti».
Capito? E non pensate che la già salvata Commerzbank sia l’unica pecora nera nel gregge di candidi esempi di virtù del sistema bancario tedesco. Le Landesbanken sono state anch’esse rimesse in piedi dalla mano pubblica, la stessa che poi accusa di aiuti di Stato gli altri membri (vedi Mps), e pure Deutsche Bank ha qualche piccolo problema di esposizione ai derivati e alla leva. Non lo dico io, lo dice l’ex membro della Fed e attuale vice-presidente della Federal Deposit Insurance Corporation, Thomas Hoenig, a detta del quale il colosso tedesco «ha livelli di capitale orribili, sono orribilmente sottocapitalizzati. Di fatto, non ha un solo margine di errore».
A cosa si riferisce Hoenig? Forse al fatto che, stante i netting fantasiosi messi in piedi per abbellire il bilancio, Deutsche Bank alla fine del 2012 aveva un’esposizione ai derivati pari a 55 triliardi di euro. Avete letto bene, circa 21 volte il Pil tedesco. Certo, poi, come vi ho anticipato, il netting fa miracoli: quel numero cala a un 776,7 miliardi di positive market value exposure, ovvero assets, e 756,4 miliardi di negative market value exposure, ovvero liabilities, i valori massimi a bilancio per l’azienda che presenta uno stato patrimoniale di 2 triliardi di euro. Oplà, miracoli della contabilità teutonica, il valore di esposizione ai derivati “ufficiale” crolla a un misero 20,3 miliardi di euro. Capito perché la Germania ha come priorità assoluta il fatto che nessuno dall’esterno debba mettere il naso nei bilanci delle sue banche?
Ora guardate il grafico a fondo pagina, è tratto dall’ultimo Financial Stability Report della Banca d’Italia pubblicato martedì e ci dimostra l’andamento delle detenzioni estere di titoli di Stato italiani, graficizzando poi nella “torta” la loro ripartizione attuale sul totale di detenzione. Come vedete, la quota di debito italiano in mano estera resta in area 30%, placida. Vedete però altresì che tra la metà del 2011 e l’inizio del 2012 i detentori stranieri hanno venduto circa 200 miliardi di titoli pubblici italiani, ragione che portò all’esplosione dello spread, alla “caduta” del governo Berlusconi e all’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi con la sua bella agenda made in Germany.
Questo dato ci fa capire due cose. Primo, visto che da allora a oggi le condizioni macro dell’Italia sono peggiorate e molto ma le detenzioni estere restano ferme, ovvero nessuno vende, significa che quella vendita innescata proprio da Deutsche Bank nella primavera del 2011 con 9 miliardi di debito scaricato e coperto con cds fu un atto politico, ovvero a livello europeo si volevano chiudere i conti con Berlusconi. Secondo, quel 30% circa di titoli in mano estera potrebbero essere scaricati da un momento all’altro se il nostro Paese non facesse ciò che deve, ovvero fare in modo che salti la supervisione unica sul sistema bancario Ue e che ogni regolatore nazionale metta mani e occhi nei bilanci delle sue banche. Attendiamoci quindi molta esuberanza ed effervescenza sull’argomento nei mesi a venire, magari qualche attacco alle nostre banche da parte di giornali autorevoli. Anzi, aspettiamoci qualcosa nelle settimane a venire, visto che ormai siamo a metà novembre e in primavera scattano gli stress test.
Non so come mai, ma ho la netta sensazione che il nostro “palle d’acciaio” più che vantarsi del materiale di cui sono composti i suoi attributi, sia tenuto per gli stessi da Berlino. Perché con 470 miliardi di titoli di Stato in pancia alle nostre banche, se quel debito in mano estera viene scaricato e lo spread sale alle stelle, di questo Paese resteranno solo le macerie. Abbiamo un’unica speranza: un’alleanza strategica in chiave anti-tedesca con la Francia, la quale non può permettersi un nostro default, visto il grado di esposizione delle sue banche al Bel Paese, oltre 330 miliardi di euro. Qualcuno lo dica al governo. Ma in fretta.