Ha avuto il suo bello scrivere, il premier Matteo Renzi ieri nella sua e-news, che “mettere in discussione Schengen vuol dire uccidere l’idea stessa di Europa; abbiamo lottato decenni per abbattere i muri, ricostruirli vuol dire tradire noi stessi”. Ma al solito la narrazione renziana sul Vecchio Continente e sul ruolo dell’Italia fondatrice è anche più debole di altre: soprattutto quando deve fare i conti con i rapporti di forza dell’Europa reale; e a maggior ragione quando segue una plateale fase muscolare come quella ingaggiata negli ultimi giorni da Palazzo Chigi con il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. Ieri sera ad Amsterdam solo il ministro degli Interni italiano, Angelino Alfano, ha potuto narrare che “Schengen per ora è salva”.
Nei fatti il vertice Europol ha dato via libera all’estensione dei controlli per due anni, attivando la procedura istituzionale di gestione modificata dell’Accordo. E questo va a solidificare la scacchiera dei controlli d’emergenza decisi nelle ultime settimane da alcuni dei 26 Paesi dell’Area Schengen (Francia, Germania, Svezia) premuti da ondate migratorie e minaccia terroristica. “Schengen sta per saltare”, ha brutalmente sintetizzato il ministro della Sicurezza austriaco, Johanna Mickl-Leitner. Se per l’Europa l’insidia di un arretramento strutturale diventa meno teorica, per l’Italia il pericolo è doppio. E i conti arrivano già, ogni giorno, anche ieri. Quando la commissione Ue – durante una revisione di routine dei conti pubblici dei Paesi-membri, torna ad accendere i fari sul debito italiano (tuttora a rischio nel medio-lungo termine) è chiaro che in Europa muri e fossati sono tornati e non in via transitoria.
E non basta la retorica di Renzi a far cambiare idea agli europei del nord su quelli del sud: poco solidali e abbastanza miopi i primi su migranti e lotta all’Isis, ma tant’è. La Grecia è tornata sul banco degli imputati: sei mesi fa sulle finanze pubbliche, ora sulle frontiere gruviera. Vista da Colonia è un pezzo di Europa, quella mediterranea, che non si sente più tanto tale. Come non lo è più l’Europa delle banche: praticamente dentro l’Europa più reale che finora sia stata creata, quella monetaria. Alla vigilia del suo viaggio a Bruxelles per un punto della situazione a 360 gradi sul dossier bancario con l’Antitrust della danese Margrethe Verstager, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non aveva alcuna certezza di portare a casa qualche risultato: principalmente sul dossier “bad bank”. Fra l’altro ieri via XX Settembre era affannata a rintuzzare l’ultima punzecchiatura da Bruxelles.
Renzi dal canto suo, impegnato a firmare accordi economici con il presidente iraniano Rouhani, ha dovuto trovare il tempo di premere sul sistema bancario perché si ristrutturi in fretta via aggregazioni. Non c’è nulla da fare: anche dietro la cauta difesa tattica stesa da Mario Draghi, l’Italia non può permettersi altre giornate di passione attorno a Mps. In Borsa del resto, ieri è tornata l’eco dei tonfi: per il Monte, per UniCredit, per molte Popolari. E a nord del continente, a Londra, proprio ieri il governo Cameron è tornato a chiedere “regole meno stringenti” (per le banche della City…) per scongiurare il rischio-Brexit. Il referendum britannico sull’Ue, le elezioni presidenziali in Francia nel 2017 e quelle politiche in Germania. Può stupire che il “nocciolo duro” dell’Ue abbia deciso che nei prossimi due anni l’Europa comincerà ad essere un po’ meno Europa? Può sorprendere che il direttore generale del Fondo monetario internazionale, la francese Christine Lagarde, sia preoccupata di Schengen al pari dell’euro? Sono la stessa Europa. Che sta emarginando l’Italia di Renzi.