«Sarà pure un governo “strano” come dice Monti. Ma diverso mica tanto». Conclusione mesta e pensosa, quella di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, mitragliato dalle querele da parte di Giulio Terzi di Santagata e Paola Severino, due fra i ministri tecnici più ricchi e blasonati. Ma sentite Francesco Merlo dalla prima di Repubblica: «Cento giorni di virtù e di potenza, con i tic d’inglese che sostituiscono il briffare della Minetti con la cloud computing, la nuvola dei dati; al posto del nerd e del geek di Publitalia qui arrivano la spending review e la gestione in house. E ci sono pure le guasconate berlusconesche: “Diamoci un taglio!”, “Diventeremo un modello per l’Europa”. Torna, infine, il politichese doroteo, ma solo per definire “rimodulazione delle aliquote di accisa” il rincaro della benzina». Sembra già finita al primo pit-stop la luna di miele fra la sinistra – almeno fra i “media” autoreferenti di una cosiddetta sinistra – e il supertecnico che ha spodestato Silvio Berlusconi, per di più su chiamata del primo presidente della Repubblica proveniente dalle fila dell’ex Pci. Gli adepti dell’esecutivo bocconiano? «Una casta», sibila Travaglio. Il diligente bilancio-web dell’impervio debutto di Monti? «Un libro dei miracoli», qualcosa di molto simile alla «famigerata lavagna di Porta a porta»: parola di Merlo, da Parigi. Che succede?
Sia nel caso del Fatto che in quello del gruppo Espresso-Repubblica, sarebbe scorretto sia frugare soltanto tra gli interessi di bottega, sia alzarsi in volo a quote eccessivamente politologiche. Tanto più che gli interessi di bottega – editoriali o diversi – non sono affatto illeciti in una democrazia di mercato. Però sarebbe utile (a tutti) farli emergere con un minimo di trasparenza; anche nell’interesse della “politica”, che è poi l’interesse (legittimo) di molti lettori del Fatto, di Repubblica, dell’Espresso. Il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha pubblicato ad esempio in settimana un editoriale in cui accusava Berlusconi di aver parlato a lungo con Monti solo di tv in Italia. Premesso che – sotto sotto – il malumore di Repubblica andava a parare sul premier, anche il “column” medesimo finiva per parlare solo di tv: che è quello che interessa al gruppo Espresso-Repubblica, non diversamente dal gruppo Fininvest. Forse è (anche) per questo che Repubblica osserva con sempre maggiore apprensione le evoluzioni del «governo tecnico»: non diversamente – è vero – dall’elettorato Pd o dagli iscritti Cgil.
Tuttavia le preoccupazioni della famiglia De Benedetti – proprietaria di Espresso-Repubblica – non sembrano interrogarsi solo per gli assetti della democrazia italiana, se Monti & C. siano più “di destra” o “di sinistra” danzando tra Pdl, Pd e Terzo polo. Riguardano più tranquillamente la privatizzazione della Rai, le assegnazioni delle frequenze del digitale terrestre fino all’energia. Di qui, tra l’altro, l’attenzione spasmodica per il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, a lungo manager prediletto dell’Ingegnere, nonché ex amministratore delegato dello stesso gruppo editoriale.
E’ Passera che dovrà decidere sul “beauty contest” del digitale terrestre, per ora sospeso. E’ ancora sulla scrivania di Passera che hanno già cominciato ad affluire dossier caldi come la cessione di Edison a Edf e lo sviluppo del piano Super-Edipower con la possibile aggregazione delle grandi utility come A2A e Iren. E allora cosa meglio che sparare una copertina dell’Espresso legando le future ambizioni politiche di Passera con l’avanzata della “nuova Cl”, fino alle fantomatiche mosse del cardinale Angelo Scola? In realtà di un’intera, para-clamorosa cover-story quello che conta pare un’intervista a box all’assessore del Comune di Milano, Bruno Tabacci: il quale trova il tempo di esprimere tutta la nostalgia delusa per don Luigi Giussani.
Neanche un’eco delle sgolate dichiarazioni quotidiane a favore della fusione tra A2A e Iren e della rapida privatizzazione delle quote di maggioranza da parte dei grandi Comuni (Milano, Torino, Brescia, Genova, etc). Non è che la vera preoccupazione dell’Espresso sia che le grandi manovre sull’energia resti fuori la cugina Sorgenia, gioiello della Cir? Non è che Passera sia freddo alla candidatura della Cir ad essere partner industriale della grande “Rwe italiana”, concorrente di Eni ed Enel? Situazioni importanti e complesse, certo: forse anche per lettori-elettori che vogliono essere ben informati sulla politica industriale del Paese. Ma, per cortesia e letteralmente, «lasciamo stare i Santi».
«Mica tanto diverso», per dirla con lo stesso Travaglio, il problema del Fatto, tra politica e business. Tra scoop quotidiani “in diretta dalle Procure”, alleanze organiche con Michele Santoro (sulle tv pubblica, pagata dal canone) , libri a getto continuo per Chiarelettere – sempre in fornitura gratuita dai Palazzi di giustizia – dvd e spettacoli teatrali, il “professionismo dell’antiberlusconismo” ha reso bene a fondatori e continuatori del Fatto. E il mercato ha sempre ragione, soprattutto con le start-up. Trent’anni fa è valso per Berlusconi (il cui talento di imprenditore televisivo qualche aiutino lo ha pure avuto dalla politica) e vale oggi per il Fatto, che pure alcuni considerano la “struttura delta” del partito-azienda dei magistrati. E se Berlusconi ha avuto bisogno, a un certo punto, di “scendere in campo” per salvare le sue attività, anche per i Fattisti è giunto un momento difficile, anche se probabilmente atteso e preventivato. La caduta del Cavaliere toglie ai Fattisti il “core business”: il senso di benessere dato ogni mattina a decine di migliaia di lettori-elettori, rassicurandoli della fondatezza e dell’universalità etico-politica del loro anti-berlusconismo.
Non per nulla Travaglio si considera, non a torto, uno dei più autentici discepoli di Indro Montanelli: i cui editoriali, i cui elzeviri, i cui “Controcorrente”, hanno alimentato per decenni gli ego di milioni di italiani “benpensanti”. Ma ora che Berlusconi è stato esemplarmente cacciato? I due “Mario” – Monti e Draghi – sono davvero i nuovi Cavalieri del Vero, del Buono, del Giusto, del Bello (Sobrio…)? Oppure sono torvi agenti della Goldman Sachs, meno “democratici” del previsto e dell’auspicato, non proprio più poveri di Berlusconi, non meno dotati degli svelti avvocati Ghedini? E nel caso come destreggiarsi tra interessi editoriali ed acrobazie politiche? Naturalmente queste sono semplificazioni mediatiche. La politica, dicevano i grigi e odiati notabili della mai troppo deprecata Prima Repubblica, è «ben altro».