È l’arsenale più impressionante della storia finanziaria: Ben Bernanke, che ha già immesso dal 2008 in poi 2.300 miliardi di dollari nel mercato, ha annunciato che la Fed acquisterà titoli per 40 miliardi al mese oltre a proseguire per l’anno in corso nell’operazione twist (scambio di titoli a breve contro emissioni a lungo) in cui sono già stati impegnati 667 miliardi. In tutto, saranno immessi 85 miliardi di dollari ogni mese di qui a fine anno, quando l’America avrà superato la scadenza elettorale. Inoltre, il costo del denaro resterà eccezionalmente basso, vicino a zero, almeno fino a metà 2015 (e non più a metà 2014).
Stavolta Mario Draghi non ha di che invidiare il collega americano. Dopo il nulla osta della Corte Costituzionale tedesca, l’Esm può contare su 80 miliardi di capitale interamente versato e può contare, in qualsiasi momento, su un totale di 700 miliardi di euro (190 miliardi di matrice tedesca). Se si considera l’Efsf, la potenza di fuoco della Bce sale a 1.500 miliardi, di cui però quasi la metà è già stata impegnata a sostegno dei Paesi a rischio. Ma a questa forza d’urto Draghi può aggiungere un’arma letale: il programma Omt, ovvero la possibilità di operare acquisti illimitati sul mercato secondario a favore di Italia e Spagna. Una vera e propria bomba in grado di far da deterrente a qualsiasi spinta speculativa, inedita per l’armeria europea: non a caso i mercati finanziari hanno reagito con grande euforia alle decisioni della Bce del 6 settembre, mentre sono apparsi assai più “freddi” dopo l’ok della Corte di Karlsruhe e il lancio, atteso, del Qe3.
Insomma, nelle mani dei due banchieri centrali ci sono oggi, anche a non tener conto dei quattrini già impegnati, quasi 2mila miliardi, suddivisi tra euro e dollari. Circa cinque volte tanto, per fare un paragone, alle attuali disponibilità del Fondo monetario internazionale. Mai, per uscire da una crisi economica, il mondo ha fatto tanto affidamento negli strumenti della politica monetaria. Una scelta più imposta dall’assenza di una vera leadership politica che non il frutto di una decisione consapevole. E che, anche per questo, solleva più di un interrogativo.
Saranno in grado i nostri “eroi” di compiere la grande missione? Che succederà, tanto per cominciare, se le immissioni di liquidità e gli acquisti incondizionati si riveleranno inefficaci? Si può rispondere che sia Bernanke che Draghi hanno in mano altre carte da giocare. La Fed potrebbe seguire l’esempio di Francoforte facendo ricorso ad acquisti “illimitati” sul mercato. Non solo. Bernanke potrebbe sparare la “sua” atomica: fissare un target nominale di crescita del Pil, senza curarsi degli effetti sull’inflazione: una sorta di elettroshock che potrebbe ridar vigore alla ripresa e innescare un circuito virtuoso dell’occupazione. Draghi ha in serbo il calo dei tassi, fermi allo 0,75% in Europa. Oltre ad altre misure non convenzionali che non urtino contro lo scoglio della Consulta tedesca: allargare ancora, ad esempio, i collaterali che gli istituti di credito possono usare per prender soldi a prestito da Francoforte.
Al di là delle scelte tecniche, resta un dato di fatto: sia Bernanke che Draghi hanno deciso che è giunta l’ora di tentare un salto di qualità nella lotta alla crisi. Finita la fase del contenimento per evitare il peggio, si tratta di affrontare il nemico in campo aperto. Senza illudersi, né in Usa, né in Europa, sull’appoggio che potrà venire dalla politica. I due banchieri, insomma, si sono rassegnati al ruolo di supplenti. O meglio, la loro strategia è di mettere le forze politiche di fronte a fatti compiuti, costringendo i policy makers ad assumere posizione o a chieder il conforto del voto.
Sia Bernanke che Draghi sanno di dover temere il fuoco amico. Negli Stati Uniti il partito repubblicano ha già fatto sapere che, in caso di vittoria di Mitt Romney alle elezioni, il presidente della Fed che arriva dai ranghi dello staff di George W. Bush non sarà rinnovato. Draghi non si fa illusioni: prima o poi arriverà la vendetta dello schieramento politico più vicino alla Bundesbank. Ma i due non avevano alternative: o tiravano fuori gli artigli, facendo sapere al mondo che si farà “tutto quanto è possibile” per uscire dalla crisi, o ci si rassegnava a far da notai impotenti di fronte alla nuova recessione.
La scelta storica è stata fatta. Speriamo sia sufficiente. Molto dipenderà da circostanze che non dipendono dalla volontà dei banchieri. O anche dei politici. Non tutte le chiavi del nostro destino si trovano a Roma, Francoforte o Bruxelles. La polveriera del Medio Oriente può rappresentare la variabile impazzita di una congiuntura già problematica. Ma molte cose, però, dipendono comunque da noi. Come ci segnala il termometro dei mercati finanziari.
Lo spread tra i titoli tedeschi e quelli italiani si è ridotto assai in questi giorni. Ma assai meno di quello dei titoli spagnoli o di quelli irlandesi (e portoghesi). La spiegazione è semplice: la Spagna, com’è scontato, si metterà sotto la protezione del fondo Esm. Irlanda e Portogallo potranno far conto sui contributi dell’Efsf finché non potranno tornare sul mercato. E l’Italia? Ha i numeri per poter nuotare nel mare del debito senza ricorrere a ciambelle di salvagente (soprattutto ora che la ciambella è a portata di mano, sulla zattera di Draghi). Ma per paradosso, è proprio questo che preoccupa i mercati: se nel Bel Paese si fa strada l’idea che il peggio è alle spalle (cosa non vera, peraltro), i buoni propositi vanno a farsi benedire. Soprattutto in campagna elettorale. E in quel caso la rete di Draghi servirà a ben poco.