«Solo con una rigorosa sussidiarietà si possono evitare i rischi di uno statalismo oppressivo. Esso non è morto e dobbiamo sempre temerlo, perché si regge su una serie di complicità che vanno dagli interessi organizzati di tipo corporativo – magistratura compresa – alla grande industria». Piero Ostellino, editorialista del Corriere della Sera, interviene sul manifesto diffuso dalla Compagnia delle Opere in vista delle elezioni regionali del 27 e 28 marzo.
Il manifesto dà un giudizio molto severo sull’individualismo. Cosa ne pensa il liberale Piero Ostellino?
Non ho trovato un’accusa all’individualismo, ma un bel testo in cui ho riconosciuto molto dell’America di Tocqueville. Dove l’individualismo ha cittadinanza piena, ma al tempo stesso è riconosciuta la socievolezza degli individui. Essere individualisti non significa negare i rapporti con il prossimo. Ecco perché Il manifesto è una conciliazione riuscita tra il principio individualista e liberale e quello della socievolezza, che è altrettanto liberale. Alla maniera della Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, dove il rapporto con gli altri è misurato dalla «simpatia» che ciascuno ha nei confronti dell’altro. Un individualismo «sociale».
Come si combatte lo statalismo oggi e chi può farlo?
Solo una cultura liberale o una cultura di ispirazione cattolica basata sul principio di sussidiarietà. In campo cattolico il vizio d’origine sta nel compromesso tra i cattolici dossettiani e i comunisti che si realizzò nella Costituente e che diede un’impronta determinante alla prima parte della nostra Carta. Dove lo statalismo è sostituito con termini che denotano la sua falsa coscienza, come «collettività» e «utilità sociale». Formule che danno alla classe politica la giustificazione ideologica per mettere le mani nelle tasche dei cittadini o per condizionarne le libertà.
«Occorre una politica che sappia valorizzare tutte le realtà che permettono e favoriscono l’emergere del nesso profondo fra il bene della singola persona e il bene di tutti». È d’accordo?
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Innanzitutto sono d’accordo che non sia usata la parola «interesse generale» ma «interesse comune». E lo dico perché l’interesse generale di solito nasconde quello di chi comanda, mentre l’interesse comune esprime l’interesse di tutti quanti, cioè della comunità intesa come l’insieme degli individui che perseguono i loro interessi. Non può esserci contraddizione tra interessi generali e comuni là dove c’è una cornice normativa che mette in condizione ciascuno di perseguire i propri interessi nella massima libertà. A condizione di non fare danno agli altri.
Secondo lei i tanti «esempi virtuosi di realtà in cui l’agire delle persone genera benefici per la collettività» trovano attualmente in Italia un clima favorevole?
Lo statalismo non è morto e dobbiamo sempre temerlo, perché si regge su una serie di complicità che vanno dagli interessi organizzati di tipo corporativo – magistratura compresa – alla grande industria. C’è in Italia un milieu conservatore contrario a qualsiasi cambiamento che liberi l’individuo da lacci e laccioli che lo soffocano.
Lo stesso corporativismo e lo stesso capitalismo che lei ha attaccato in un suo recente editoriale, accusandolo di darsi una vernice etica?
Proprio quello. Diceva giustamente Croce che gli uomini di buone intenzioni non sono nient’altro che degli ipocriti, perché in un paese ben organizzato è la legge che governa e non le buone intenzioni degli uomini. Quindi una banca che fa pagare i propri servizi dieci volte quello che li fanno pagare le altre banche in Europa e si dichiara sociale è soltanto ipocrita. Il capitalista che si dichiara sociale, ma al tempo stesso mendica i sussidi dallo stato per vendere prodotti che altrimenti non sarebbero competitivi, è altrettanto ipocrita. Idem le corporazioni professionali che dichiarano finalità sociali, ma impediscono ai giovani di entrare nel sistema economico. Gli interessi in un paese avanzato non si perseguono in questo modo.
La Cdo mette al centro l’educazione a due livelli: come comunicazione di criteri fondamentali per orientarsi nella vita e come libera scelta educativa. Anche in questo campo lo stato «canaglia», per usare una sua espressione, ha fatto sentire i suoi effetti?
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Sì, prima di tutto a causa di una cultura essenzialmente statalista, collettivista e dirigista che negli ultimi cinquant’anni si è impadronita di tutti gli spazi disponibili. E la scuola è stata la prima a risentirne, sia come contenuti che come organizzazione. Troppo spesso non ha una funzione formativa verso i giovani, nel senso di educarli al senso critico e non a certezze dogmatiche. A mio nipote di 11 anni è stata assegnata una «ricerca» dal titolo: Le centrali nucleari producono scorie che danneggiano le persone. Le pare? I giovani escono da scuola già irreggimentati dentro il dogmatismo figlio di quella cultura dirigistica e illiberale di cui abbiamo parlato prima.
Il card. Bagnasco ha detto di «sognare» nuovi politici cattolici. Dal suo punto di vista quali sono le tentazioni che un cattolico che fa politica oggi dovrebbe evitare?
Soprattutto la convinzione moralistica che tra etica e politica non ci sia una fondamentale distinzione. Fare politica, insomma, per attuare una rivoluzione del costume, per cambiare la testa degli uomini. Ma il problema non è questo, perché gli uomini resteranno sempre il «legno storto» di kantiana memoria. Si tratta semplicemente di governarli come sono, facendo in modo che l’uno non diventi «lupo» dell’altro. Che la Chiesa predichi la religione e la morale è assolutamente comprensibile ed è il suo compito. La politica però non deve preoccuparsi dell’aldilà, ma solo di questo mondo.
Qual è il suo bilancio dell’attività di governo, sul versante delle riforme?
Un bilancio non entusiasmante. Nel 1994 Berlusconi era andato al governo promettendo una rivoluzione liberale e una semplificazione della macchina dello stato, e in parte qualcosa sul piano amministrativo è stato fatto, soprattutto negli ultimi tempi. Ma aveva promesso anche una radicale riforma fiscale e una drastica riduzione della spesa pubblica, che invece è aumentata.
Siamo oppressi dai vincoli di bilancio.
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Sì, ma abbiamo fatto di tutto per aumentare la spesa pubblica, ed è evidente che quando questa raggiunge livelli di guardia il deficit annuale cresce e quel che è peggio si accumula il debito consolidato. La conseguenza ovvia è che non si possono più ridurre le tasse per non aumentare ulteriormente il debito. Invece per ridurre l’imposizione fiscale bisognerebbe tagliare drasticamente la spesa pubblica. Anche Berlusconi è vittima o soggetto «colluso» con tutti gli interessi organizzati che risultano intoccabili. Come la pubblica amministrazione.
Il federalismo fiscale riuscirà a creare una gestione della cosa pubblica più oculata e più vicina ai cittadini?
Esso rischia di essere penalizzante per le Regioni che producono il reddito e gratificante per le Regioni meno virtuose, che sono soprattutto quelle del Sud. Il federalismo fiscale ha una sua logica se ogni regione è virtuosa, cioè se riesce a far pagare le tasse e con quelle tasse riesce a mantenersi fornendo servizi adeguati. Giustamente Luca Ricolfi ha posto l’attenzione sulla difficoltà che questo avvenga. C’è il rischio che la riforma funzioni solo sulla carta.
Ma la logica dei costi standard per misurare le prestazioni serve proprio a evitare che le Regioni spendano a piacimento per ripianare poi i debiti a piè di lista.
Fin tanto che il Nord assisterà il Sud con i suoi quattrini ci sarà un altro effetto fortemente negativo: che nel Sud non nascerà mai una classe imprenditoriale, perché nessuno vorrà prendersi dei rischi. Questo è il problema puro e semplice. Il federalismo fiscale rischia di consolidare la spaccatura dell’Italia tra un Nord che produce e paga più tasse e un Sud evasore fiscale che vive di assistenzialismo. Il vizio sta nello statalismo: nell’aver creato un sistema assistenzialista per ragioni di consenso politico.
Come si può evitare che il federalismo attui un nuovo centralismo su scala ridotta, ancor più oppressivo per il cittadino?
Solo mediante una rigorosa applicazione del principio di sussidiarietà. È l’ultima chance per governare bene rispettando le libertà individuali.
(Federico Ferraù)