«L’euro continuerà a costituire uno strumento di sviluppo importante, chi pensa che possa essere rimesso in discussione sarà smentito». Così parlò il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, all’Europarlamento, che ieri ha votato sul nuovo esecutivo comunitario.
Condizione per rafforzare l’unione monetaria, ha indicato ancora Barroso, è che l’Eurozona parli «con una voce sola» nelle istituzioni internazionali e che le politiche economiche siano coordinate: «Certi politici nazionali sono contrari a un approccio più coordinato, se vogliamo rafforzare la nostra base industriale invece bisogna avere un coordinamento economico più forte».
Il periodo è «difficile ed è inutile negarlo», ma la zona euro è «in grado» di gestire la situazione, «l’euro è stato uno dei principali successi della storia dell’Ue e la zona euro ha rappresentato una area di stabilità e di creazione di occupazione», ha sottolineato Barroso, affermando che anche Eurolandia ha risentito della crisi così come paesi, come l’Islanda, che non ne fanno parte.
«La crisi non è stata creata nell’eurozona, ma è venuta da fuori. L’euro ha protetto i paesi che vi aderiscono e la situazione sarebbe stata molto più grave senza la moneta comune», ha insistito Barroso, osservando che «la situazione dei mercati finanziari a volte viene descritta in modo da ingigantire i problemi, ma queste analisi di solito vengono da paesi che non sono nella zona euro».
Per quanto riguarda la Grecia, Barroso ha ricordato l’approvazione da parte della Commissione del pacchetto di risanamento dei conti pubblici, sottolineando che questo richiede «l’azione del governo greco». Il via libera a Barroso, ieri veniva dato per scontato: bene, teniamocelo uno che parla di crisi arrivata fuori dalla zona euro, come se non conoscesse la bomba atomica pronta a esplodere nella pancia delle banche tedesche grazie alla cattiva abitudine teutonica, non solo statunitense o inglese, di agire sulla leva ed esporsi per dieci, venti volte maggiormente della riserve che si hanno in cassa.
Teniamocelo chi parla di «problemi ingigantiti da analisi che di solito arrivano da fuori la zona euro»: e prepariamoci a quanto segue. Ampiamente previsto e temuto, è infatti cominciato il “double dip”, ovvero l’onda recessiva a W, quella creata dall’eccesso di liquidità a costo zero che ha intasato i mercati e dato vita al motto “liquidity turns to equity”: di nuovo crollano le Borse dopo il rally e la speculazione trascina interi Stati sull’abisso del fallimento.
Quel che accade l’ha spiegato pochi giorni fa niente meno che Joseph Stiglitz nel modo più semplice possibile: le banche d’affari, salvate dagli Stati che si sono indebitati in modo assurdo per questo, adesso scommettono sull’insolvenza di quegli Stati (e finiscono per provocarla con i loro carichi di posizione sui cds). Per scommettere al ribasso contro il debito di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda (a quando l’Italia?) gli speculatori usano quei trilioni ricevuti dai contribuenti. Anzi, peggio.
Siccome usano i derivati, i futures, possono vendere miliardi di titoli che non possiedono nemmeno, solo anticipando un “margine” insignificante: la vendita allo scoperto, che provocò il crack del 1929, viene moltiplicata dai nuovi strumenti finanziari. A Londra stanno gettandosi in questo marasma suicida la maggior parte degli hedge funds, si scommette sul crollo del debito dei paesi dell’eurozona come su quello della crescita cinese, alimentato da strane mosse politiche che vedono Obama sempre più sulla china di un doppio binario amministrativo, leftist in tema sociale, quasi cheneyano per quanto riguarda il ruolo di superpotenza egemone degli Usa.
In Italia – e più in generale in Europa, dove dettano legge tipi alla Barroso – certe cose si finge di non vederle. A Londra, invece, ci si lavora sopra alacremente. Per fare soldi prima che sia troppo tardi. A Barclays Capital lo hanno fatto. E l’ultimo outlook sembra una lista di condannati a morte pronti a mettersi in fila per il death row: le liabilities esterne, ovvero l’esposizione netta verso l’estero, della Grecia sono all’87% sul Pil, uno scherzetto da 208 miliardi di euro. Quelle spagnole si attestano a quota 91% del Pil (950 miliardi di euro), quelle portoghesi al 108% sul Pil (177 miliardi di euro), quelle irlandesi al 63% (123 miliardi), quelle italiane al 23%, ovvero 347 miliardi.
Uniamo quel pozzo senza fondo di esposizione non ripagabile causa default tecnico e fine della carità da parte del Fmi e della Banca Mondiale che è l’Est europeo e il titolo di quella che possiano definire eurozona allargata di Club Med, Irlanda e Balcani tocca quota 2 trilioni di euro di esposizione netta. Barroso non lo sa, lui si limita ad accusare chi fa analisi troppo catastrofiche: se lo sapesse – o non fingesse di ignorarlo – forse sarebbe meglio. Siamo a livello, per capirci, della messe di porcherie finanziarie accumulatesi nell’era Greenspan unendo subprime/Alt-A, CDO e SIVS: insomma, una bomba ulteriore pronta a fare boom.
E sulla cui esplosione in molti stanno puntando forte: talmente forte da portare, come conseguenza diretta, il peggioramento “artificiale” della situazione sull’assicurazione del debito e quindi il premio che questo richiede. Siamo al paradosso che se anche la Grecia metterà in atto il suo piano di riforme draconiano – e con essa Portogallo e Spagna – questo non escluderà il rischio di default, poiché i mercati “decidono” chi deve fallire, non si limitano a osservare e comportarsi di conseguenza. Chi opererà in Borsa, nel futuro, potrà fregarsene di conoscere punti di resistenza, triangoli ascensionali e discensionali di un titolo, andamento ciclico, linee di trend e quant’altro: ormai, si gioca duro.
I titoli, le Borse regolamentate, sono preistoria. L’euro, nei fatti, ha trasformato il rischio di cambio in rischio di credito: lo sa Barroso, lo sa Trichet, lo sanno tutti. Visto che Landesbank, in Germania, ha comprato cedole spagnole ritenendole sicurissime, salvo poi vedere il mercato immobiliare iberico esplodere. I titoli subprime AAA a 10 anni pesano nei bilanci esattamente come quelle emissioni avvelenate giunte da Madrid e dal suo paradiso economico artificiale: ora la bomba è innescata, o si scarica in qualche modo – ovvero facendo indebitare ulteriormente i governi – o si salta.
E il destino appare poco differente scegliendo tra le due opzioni: non far nulla significa naufragare, metter mano al debito per intervenire la stessa identica cosa. E gli hedge funds, questo lo sanno. La quota di debito statale da ripagare quest’anno per la Spagna è del 17% sul Pil, peggio del 12% della tanto vituperata Grecia: ma Barroso, questo non lo sa. Non vi ricorda qualcosa questa situazione? Non vi ricorda terribilmente l’inizio del 2009 e il rischio di default sistemico dell’Est europeo, con possibile contagio delle borse globali, del mercato delle commodities e degli indici di credito iTraxx?
Beh, all’epoca ci pensarono G20 e Fondo Monetario a mettere in campo uno scudo da 750 miliardi di dollari che evitasse il cataclisma: oggi chi può farlo? Pensate davvero che esistano ancora margini per manovre di stimolo a costo zero? Pensate davvero che l’America, alle prese con il rischio iper-inflattivo innescato dal dato di crescita fuori previsione, si farà molte remore nel mandarci a fondo se questo servirà a colpire noi ma soprattutto uina parte del mercato di export e diversificazione monetaria della Cina? I contratti al Chicago Mercantile Exchange (Cme), un barometro molto consultato dai grandi speculatori internazionali, dimostrava dati alla mano che la scorsa settimana le posizioni di short netto contro l’euro sono salite in un giorno da 39.500 contratti a 43.700, per un controvalore di 5,5 miliardi di euro.
E la Germania, cosa farà? Accetterà il suo destino insieme agli amichetti europei in nome dello spirito comunitario o scaricherà il Club Med e opterà per un deutsch mark II in logica di peg? Molti di voi si chiederanno: ma allora cosa si dovrebbe fare per evitare questo scenario catastrofico? Occorrerebbe seguire l’esempio di Hong Kong, che durante l’attacco speculativo del 1997-1998 ha alzato i tassi di interesse, e i governi dovrebbero intervenire direttamente sui mercati finanziari. Avranno il coraggio di farlo?
Domande che occorre cominciare a farsi, perchè il tempo stringe e nelle sale macchine dei fondi speculativi i motori vanno a tutta forza. Speriamo non disturbino troppo i sonni di Barroso.