La strategia della Bce sta già dando i suoi frutti. Le decisioni prese dall’estate scorsa in poi hanno impedito che l’Europa (e non solo) precipitasse nella deflazione, spingendo le famiglie a consumare di meno e a risparmiare di più. Mario Draghi, in trasferta con gli altri banchieri dell’Eurozona a Cipro (Paese sotto la tutela della troika), lancia un messaggio ottimista nel giorno in cui vengono definiti i dettagli operativi prima che lunedì comincino gli acquisti di titoli. I mercati rispondono senza alcuna riserva: le Borse salgono, il rendimento dei Btp scende al pari dello spread che nel corso della giornata buca più volte al ribasso la soglia dei 100 punti, fino a un minimo di 93. Scende l’euro, soprattutto. La moneta unica scivola a quota 1,1004, mai così in basso dall’inizio del 2003.
Parte così, finalmente con una nota positiva, l’avventura del Quantitative easing europeo, assai più complesso del precedente Usa perché inserita in un’architettura istituzionale molto più complicata. Il solo effetto annuncio, sottolinea il Presidente della Bce, ha ribaltato una situazione che minacciava di avvitarsi con effetti devastanti. Lo confermano le nuove stime sulla crescita dell’eurozona. La Bce prevede per il 2015 un +1,5%, mezzo punto in più delle stime di dicembre. E il trend è destinato a prender velocità: nel 2016 il Pil dell’Eurozona salirà dell’1,9% (contro l’1,5%), mentre per il 2017 la prima previsione è +2,1%.
Diversa, all’apparenza, la stima sulla crescita dei prezzi: l’inflazione frenerà ancora quest’anno fino a zero, sotto la pressione del calo dei prezzi energetici che, aggiunge Draghi, “ha senz’altro effetti positivi ma può comportare in un secondo momento aspetti negativi”. Le mosse espansive della banca centrale hanno “fortemente diminuito” i rischi di quest’involuzione. E ora le aspettative stanno cambiando di segno: nel 2016 i prezzi saliranno dell’1,5%, per poi arrivare all’1,8% nel 2017. Ovvero, la banca centrale è convinta di poter centrare l’obiettivo previsto dallo statuto, ovvero un tasso di inflazione “poco sotto il 2%” entro due anni. Grazie anche al Quantitative easing, cioè acquisti di titoli di Stato e delle istituzioni europee (più Abs e covered bond) per 1.140 miliardi che termineranno non prima del settembre del 2016.
Tutto bene, forse troppo. Sembra impossibile che la macchina messa a punto con tanta difficoltà dalla banca centrale in mezzo alle obiezioni e alla manifesta opposizione della Bundesbank possa funzionare senza alcun intoppo fin dal primo momento. Mica tanto per la persistenza del problema Grecia. A Nicosia Draghi ha spiegato con fermezza, davanti a una platea con una folta rappresentanza di giornalisti greci, le ragioni che impediscono di ammettere Atene nel programma di Quantitative easing: la forza della Bce, ha sottolineato, consiste nel rispetto delle regole. E le regole impediscono di usare i fondi della banca per comprare titoli di Atene. È ancora presto, ha aggiunto Draghi, per riammettere le banche greche come controparte della banca centrale di Francoforte, come potrà avvenire solo dopo che l’Eurogruppo avrà verificato, nei prossimi mesi, il rispetto degli obiettivi concordati dal governo con le istituzioni europee. Ma questo non sta a indicare che la Bce abbia abbandonato la Grecia. Anzi. “È l’ultima cosa che si potrebbe dire”, ha protestato il banchiere centrale. Non solo perché il board della Bce ha ieri alzato di 500 milioni il tetto dei fondi Ela, cioè di emergenza, che in queste settimane hanno rappresentato in pratica l’unico canale di finanziamento delle banche greche. Ma anche perché in questi mesi la Grecia ha assorbito fino a 100 miliardi di prestiti europei, pari al 68% del Pil greco. Ancora più importante l’ultima affermazione: “La Bce può erogare prestiti, anche nel caso di fondi Ela, solo alle banche solventi. E le banche greche lo sono”.
Al di là del dossier Grecia, filtrano i primi dettagli sulle modalità degli acquisti. Tra questi la conferma che è previsto l’acquisto di titoli con un tasso di interesse negativo. La stima è che il nuovo scenario favorirà nelle prossime settimane la convergenza dei titoli di Stato con il rendimento più alto, con un occhio di riguardo particolare per il Portogallo. Anche il Tesoro italiano dovrebbe poter accorciare ancora il divario che separa i Btp dai Bund. Ma per sfruttare con la dovuta efficacia la congiuntura favorevole saranno necessari altri interventi.
L’economia reale, finalmente, mostra segnali positivi, sufficienti a spingere il Pil verso una crescita dello 0,8-1%. A render possibile il rally contribuisce la velocità del tasso di caduta dell’euro a favore dell’export. Ma anche l’esaurimento delle scorte nei magazzini delle aziende italiane dall’autunno a oggi. Si avvicina, insomma, il momento in cui le aziende torneranno a chiedere prestiti in banca. Guai se gli istituti, impiombati dai crediti di dubbia esigibilità (una voragine da 350 miliardi di euro secondo il Direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro), non fossero in grado di aumentare gli impieghi per mancanza di capitali, congelati in Bot e Btp (che non richiedono accantonamenti).
Di qui l’esigenza di procedere entro pochi mesi (o settimane) al varo di una o più bad bank. Anche a vantaggio del Tesoro, presto di nuovo azionista di Mps, la banca che più ha bisogno di liberarsi di partite incagliate.