C’è un dato paradossale che può aiutare a comprendere la straordinarietà del risultato delle elezioni europee del 2014 e che, tuttavia, rende ancora più stridenti le contraddizioni in cui si dibatte il sistema politico nazionale. Se è vero che è la prima volta in cui un partito di sinistra ha sfondato il muro del 40% dei votanti, è altrettanto vero che è la prima volta in cui il numero degli astenuti ha pure sfondato la soglia del 40% del totale degli elettori (assestandosi al 42,78%). Si tratta di due risultati che vanno letti congiuntamente, giacché attestano in modo diverso il medesimo esito, consistente nel definitivo tracollo della seconda repubblica. Di qui, per l’appunto, le contraddizioni di un sistema politico chiamato a rinnovare sé stesso e l’intero impianto istituzionale, restando comunque all’interno del quadro dei principi democratici.
Il rilievo necessita di alcuni chiarimenti preliminari.
La prima repubblica ha rappresentato la risposta compromissoria del sistema politico-istituzionale alle fratture geopolitiche provocate dalla guerra fredda. La soluzione sperimentata con successo è stata quella di un regime consociativo. Questo escludeva il partito comunista solamente dall’esecutivo del Paese, consentendo allo stesso di governare dall’opposizione attraverso la «centralità» del Parlamento, l’istituzione delle Regioni e la fruibilità di tutti quei luoghi di potere (enti locali, università, cariche pubbliche, ecc.) estranei al circuito delle decisioni di politica estera, che, invece, rimaneva di esclusivo appannaggio della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati. Esito di un simile assetto, pur nelle ovvie contraddizioni emerse nella prassi di un quarantennio, sono stati lo sviluppo economico e la pace sociale del Paese.
La seconda repubblica, per contro, ha rappresentato la risposta conflittuale del sistema politico-istituzionale all’esaurimento storico delle precedenti fratture geopolitiche. La soluzione sperimentata, tuttavia, è stata inadeguata e dannosa per il Paese. Essa è consistita nell’instaurazione forzata di un regime bipolare. Il collante politico dei due poli antagonisti è stato ridotto alla lotta (anche personale) contro il nemico politico: il berlusconismo, da un lato, e la paura del comunismo. Tali valori, di conseguenza, hanno esercitato una forza divisiva assolutamente virtuale; hanno continuato a vincolare le scelte degli elettori nei reciproci schieramenti, anche se oramai sforniti di legittimazione storica e politica. Il tutto, con un irrigidimento del sistema, che ha vanificato sia la libertà di voto degli elettori, sia la responsabilità politica dei partiti; sicché il voto è stato chiesto non già quale premio per l’azione politica esercitata, bensì quale motivo di rivalsa contro il nemico politico.
È proprio una tale involuzione democratica che è stata sbaragliata dalle elezioni europee del 2014. Costretto dalle urgenze della crisi economico-fiscale e dallo sconcerto del malaffare politico, l’elettorato si è sentito libero dalle paure storiche e dai successivi fantasmi.
Sicché ha accordato la propria fiducia al partito che, per dichiarazione del proprio leader e presidente del Consiglio, ha fatto mostra di voler realizzare in breve tempo l’innovazione dell’intero sistema italiano; ovvero, per contro, ha scelto di non votare, non trovando adeguate offerte partitiche alternative al merito delle riforme perseguite dal Governo Renzi.
Come ha evidenziato la consueta analisi sui flussi elettorali svolta dall’Istituto Cattaneo, i due milioni e mezzo di voti che il Pd di Renzi ha preso in più rispetto al Pd di Bersani provengono in grandissima parte da Scelta Civica (crollata da poco meno di 3 milioni a nemmeno 200mila voti); solo marginalmente dagli elettori che non hanno più votato le ex componenti del vecchio Pdl (Forza Italia e Fratelli d’Italia) e da quelli che hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle. Sicché i voti persi da questi ultimi sono andati ad aumentare l’astensionismo.
Dato atto delle novità di un elettorato per molti versi assolutamente libero e disincantato, si arriva così ai nodi cruciali di questa nuova stagione politica. Questi conseguono all’anomalia di una tornata elettorale europea che è stata intesa dalle forze politiche, riduttivamente, quale surrogato della mancata consultazione nazionale; ancor di più, derivano dalla riscontrata assenza da parte delle minoranze di governo e d’opposizione di un’adeguata offerta politica, alternativa a quella della maggioranza e tale da consentire quella mediazione fra opposte visioni, che è all’origine di ogni compromesso costituzionale.
Attraverso lo strepitoso successo conseguito, Matteo Renzi ha ottenuto quella legittimazione politica necessaria per accreditarsi quale vero leader di partito e presidente del Consiglio; ha guadagnato sul campo il titolo per far valere il proprio indirizzo sia sulle precedenti resistenze dei parlamentari del proprio partito, sia sulle incertezze degli altri partiti di governo e d’opposizione. Un eventuale veto degli stessi, infatti, potrebbe risolversi in una crisi di governo e in un successivo scioglimento delle Camere, che, verosimilmente, darebbe luogo a un nuovo trionfo elettorale del Pd, all’emarginazione dei parlamentari riottosi e a un ulteriore ridimensionamento dei partiti minori e di quelli d’opposizione.
Proprio tale rilievo, tuttavia, rende quanto mai delicato il passaggio delle riforme costituzionali. Queste sono state prospettate all’elettorato quale segnale di ammodernamento e discontinuità, indipendentemente dalla valutazione del merito delle scelte istituzionali concretamente adottate (ruolo del nuovo Senato, ruolo delle regioni, ecc.). Ma è proprio il merito di tali scelte a fare la differenza e a caratterizzare la funzionalità di un sistema costituzionale. Gli stessi obiettivi di riforma sanciti fra Renzi e Berlusconi nel cosiddetto patto del Nazareno si prestano a una pluralità di applicazioni, solo una delle quali è adottata dal testo governativo attualmente in discussione. Quest’ultimo, di conseguenza, ben potrebbe essere corretto, senza perciò solo inficiare la volontà riformista del presidente del Consiglio.
Una tale operazione, tuttavia, presupporrebbe un approccio critico e costruttivo da parte delle nuove forze costituenti, con un ascolto attento anche a commentatori non di parte; inoltre, necessiterebbe di un’opposizione sicura, consapevole e capace di un’adeguata offerta politica.
Indubbiamente, perciò, il compito più impegnativo spetta proprio all’opposizione, la quale, se intende andare alla ricerca di un nuovo «compromesso» costituzionale, deve trovare la via del dialogo. Altrimenti basterà far valere la «soggezione» delle minoranze per il varo delle nuove riforme. Ed è questo il vero rischio: dal «compromesso» alla «soggezione» costituzionale.