Volete farvi un’idea di cosa può accadere alle elezioni di primavera? Bene, allora non perdetevi una sola puntata della telenovela siciliana, perché la Sicilia — si sa — precorre sempre gli scenari nazionali. Lo fu — tanto per fare due esempi — nel 2001 con il clamoroso 61 a zero (in termini di seggi) che sancì l’apertura della più robusta stagione del berlusconismo, così come nel 2012, quando la risicata vittoria di Crocetta sui 5 Stelle precorse la vittoria di Pirro di Bersani alle elezioni del febbraio 2013. Un pugno di voti, e la quasi impossibilità di governare.
Occhi puntati, quindi, sulle regionali del 5 novembre. Per chiudere il quadro delle alleanze e delle candidature c’è tempo sin quasi a fine settembre, ma parecchi verdetti sono stati già pronunciati. Il primo è la buona salute dei grillini, nonostante le catastrofiche performances dei sindaci a 5 Stelle, Virginia Raggi in testa. Merito di una capacità di adattamento ai limiti del camaleontismo, con il portacolori grillino Cancelleri che batte l’isola palmo a palmo, coadiuvato dai due più accreditati candidati a Palazzo Chigi, Luigi di Maio e Alessandro Di Battista, strizzando l’occhio all’abusivismo edilizio e parlando poco o nulla di lotta alla mafia.
Non solo per i pentastellati la Sicilia si presenta come un laboratorio di alleanze e parole d’ordine da replicare su scala nazionale, in caso di vittoria. Con ogni probabilità lo sarà anche per il centrodestra, che dopo un’estate rovente di polemiche ha saputo ritrovare l’unità intorno a un singolare tridente nato per mettere tutti d’accordo: candidato presidente scelto da Meloni e Salvini (l'”usato sicuro” Nello Musumeci), affiancato da due esponenti della società civile, che riscuotono un maggiore gradimento agli occhi di Berlusconi, e del suo ritrovato proconsole nell’isola, Gianfranco Miccichè. Non si dimentichi che cinque anni fa Miccichè correndo da solo impedì la vittoria proprio di Musumeci.
Per il centrodestra il dato politico è duplice: un’unità ritrovata grazie al miracoloso odore della vittoria, e il definitivo abbandono di ogni prospettiva di riabbracciare Angelino Alfano. Miccichè (pare con l’avallo dell’ex Cavaliere) ci ha provato sino all’ultimo a imbarcare l’ex delfino di Berlusconi, ma il muro eretto da Salvini e Meloni ha tenuto. E Berlusconi ha ceduto davanti a sondaggi che evidenziavano come l’apporto di Alternativa Popolare fosse decisamente modesto. Sul candidato nazionale a guidare lo schieramento si vedrà, anche sulla base di eventuali ritocchi alle regole elettorali.
Chi rischia di pagare di più in Sicilia è Matteo Renzi, che si gioca una fetta della sua leadership. Il segretario democratico sembra finito in un vicolo cieco. Ripete parole care ai leghisti come “aiutiamoli a casa loro” e si appresta a partire per un giro d’Italia in treno (dal 25 settembre) per consolidare la sua immagine fra gli elettori, quando avrebbe assai più interesse a evitare una débâcle in terra siciliana per non finire sotto assedio. Una débâcle che si staglia nitida all’orizzonte, se non ci sarà nel giro di pochi giorni un colpo di reni. Sul terreno delle alleanze, infatti, sembra più vicina l’intesa con Alfano che quella con le forze a sinistra del Pd: i bersaniani (all’insaputa di Pisapia) hanno già lanciato Claudio Fava in alternativa al candidato ufficiale (più di Leoluca Orlando che di Renzi, in verità), il rettore dell’Università di Palermo, Fabrizio Micari. In più il (modesto) governatore uscente Rosario Crocetta minaccia di ripresentarsi in solitaria, se non vi saranno le primarie.
Tre galli nello stesso pollaio equivalgono a una sconfitta certa, anzi a una disfatta che, inevitabilmente, riaprirebbe tutti i giochi nel Pd. Dario Franceschini, titolare del pacchetto di voti decisivo per gli equilibri in casa democratica, mostra ogni giorno di più segnali d’insofferenza. Non perdonerebbe una sconfitta a Renzi, e finirebbe per saldarsi con tanti altri mal di pancia interni, quelli di Orlando, di Cuperlo e di tanti altri che sono diventati renziani per necessità, non per convinzione. Un pulviscolo di insoddisfatti che potrebbe coagularsi e mettere nell’angolo il leader per la paura di essere travolti dal voto politico di primavera.
E’ vero che per le politiche si voterà con due leggi elettorali sostanzialmente proporzionali, e che quindi i giochi veri — quelli per costituire un governo — saranno rimandati a dopo il voto. Ma l’idea di lasciare a Renzi un partito personale, docile ai suoi voleri, ma debole sul piano dei consensi non passa nemmeno per la testa ai colonnelli democratici, abituati alla gestione del potere.
Senza una svolta netta sul piano della costruzione delle alleanze, la Sicilia rischia di diventare per Renzi la tomba di tutte le sue ambizioni politiche.