Altro che autunno bollente. Il caso della Fiat, cioè il ripensamento e la dilazione da parte della casa automobilistica, dell’amministratore delegato Sergio Marchionne, sui 20 miliardi di investimento in Fabbrica Italia pone problemi gravi al sistema industriale italiano. E con un ridimensionamento dell’impegno della Fiat in Italia, se non con un disimpegno, ci saranno inevitabili ripercussioni sull’occupazione in ampie aree del Paese e sullo stesso Pil, il Prodotto interno lordo.
In questo momento, naturalmente, si discute con acredine e con il famoso “io l’avevo detto”, che lascia sempre il tempo che trova. Si dice che il governo dovrebbe convocare l’amministratore delegato della Fiat, per “chiarire la situazione”. Parlare è il meno che si possa fare, ma il “convocare” sarebbe un fatto abbastanza curioso per i nuovi fautori del liberismo o liberalismo italiano: un governo che convoca l’amministratore delegato di un’azienda privata è, nel migliore dei casi, un retaggio della “maledetta prima repubblica”.
Gli attacchi a Marchionne non arrivano solo da parte sindacale, con la Fiom-Cgil, in testa, ma anche da alcuni esponenti di quello che un tempo era considerato “il salotto buono” della finanza italiana. Ha cominciato Diego Della Valle con la sua dichiarazione dei “furbetti cosmopoliti”. Ha continuato l’ex numero uno della Fiat, Cesare Romiti, sostenendo che la Fiat manca di progetti e la colpa principale è dell’amministratore delegato. A ruota vengono i politici, alcuni con commenti sgomenti e di carattere morale, come quello di Pier Ferdinando Casini: “La Fiat ha ricevuto molto dalla politica. Ora stanno suonando la ritirata dall’Italia. Questo può essere legittimo, ma moralmente non accettiamo lezioni da chi negli ultimi anni non ha saputo produrre un nuovo modello italiano”.
L’impressione è che pochi abbiano compreso in questi anni la “visione del mondo” di Sergio Marchionne. L’amministratore delegato della Fiat è un manager che con l’Italia ha solo un rapporto di antica parentela. La sua formazione, il suo modo di pensare, il suo modo di muoversi è quello di un manager di scuola anglosassone. L’idea di Marchionne sulle relazioni industriali è completamente diversa dalla tradizione italiana. Non è un caso che l’ad di Fiat abbia dettato i tempi dell’uscita di Fiat da Confindustria e che abbia scelto una sfida a tutto campo con la Fiom-Cgil.
In più, Marchionne dà l’impressione di credere sempre meno all’Italia: non capisce il contratto nazionale e vuole solo contratti aziendali; non vede “luci nel tunnel” della crisi, ma solo i fari accesi di un treno che sbarra la strada; guarda con scetticismo agli ostacoli che ci sono nel nostro Paese alla cultura d’impresa, che, come dice l’ex ministro Maurizio Sacconi, sono rappresentati da forze come il Pd, Cgil, Sel, Fiom che “sono costituzionalmente ostili all’impresa”.
Aggiungiamo però anche altre considerazioni: Marchionne sembra più un finanziere che un capitano d’industria. In effetti, ha trovato soluzioni per rimettere i conti in regola, per andare a inserirsi nel mercato americano e per cercare altri mercati, visto che in Italia si vendono ormai, da cinque anni a questa parte, un milione di macchine in meno. Ma detto questo, è vero che Marchionne non ha certo impresso una svolta innovativa nella produzione italiana.
Si potrebbe tuttavia obiettare che da tanto tempo la Fiat sembrava aver dimenticato il suo “core business” storico e aveva imboccato altre strade. C’è ancora chi si ricorda la defenestrazione dell’ingegner Vittorio Ghidella? Guardando nel suo insieme tutta questa complicata vicenda, considerando la storia parallela della Fiat e dell’Italia, sembra che stiano venendo al pettine tutti i nodi non risolti che si sono accumulati per gran parte del Novecento. Al passaggio del secolo Fiat era sull’orlo del fallimento e solo una serie di operazioni finanziarie, diciamo pure la verità, l’hanno salvata dal collasso totale e dalla chiusura. L’ambiguità non ha mai favorito delle soluzioni positive.