Nella riunione preparatoria dell’imminente riunione del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, in programma a Bruxelles il 4 febbraio, occorre porre apertamente sul tavolo il nodo delle condizioni che consentano all’eurozona di sopravvivere. Non è argomento che riguarda unicamente i 17 Stati dell’area dell’euro.
Un parere pro-veritate del servizio legale della Banca centrale europea di circa 18 mesi fa è stato chiarissimo: se si è chiesto di entrare nell’unione monetaria e si è stati accettati, ove si esca o si sia buttati fuori, non si fa più parte neanche dell’Ue. La sanzione è severissima, poiché il mercato unico non potrebbe sostenere quelle che sarebbero l’equivalente di svalutazioni competitive.
Sulla gravità del problema è in atto una congiura del silenzio, specialmente sulla stampa italiana (ne parlano più o meno velatamente quella francese e tedesca, non quella britannica, tradizionalmente scettica sulle possibilità di durata a lungo termine). I termini sono spiegati meglio che altrove nel saggio di “The EU and the Eurozone: Past, Present and Future” di Winston W. Chang della State University of New York, diramato on-line agli abbonati di “European Economics: Macroeconimcs & Monetary Economics Journal” Vol. 5, No 11 la notte tra il 21 e il 22 gennaio in attesa di uscire su supporto cartaceo a fine marzo. Winston W. Chang è un professore ordinario sino- americano sulla settantina con una lunga carriera in Asia e negli Stati Uniti e, quindi, nella lontana Buffalo, è distinto e distante dalle beghe del Continente da lui considerato “vecchio”, non “Vecchio”.
Nel saggio, dopo avere tratteggiato i successi dell’Ue (la promozione di pace, giustizia e benessere in un mercato di circa 500 milioni di persone, l’integrazione monetaria tra più di 200 milioni di persone), Winston W. Chang si chiede se i recenti tentativi di rafforzare l’eurozona con un più stringente patto di crescita e di stabilità, con un meccanismo europeo di stabilità finanziaria, con un strumenti quali gli “eurobonds”, con la creazione di agenzie per la supervisione dei mercati finanziari sono tali da assicurare la durata di lungo periodo e dell’area dell’euro e della stessa Ue. La risposta è che sono necessari come rimedi di breve periodo, ma non sufficienti.
Chang è stato considerato un “euro-entusiasta ben temperato” nel mondo accademico americano non come un “euroscettico” quale il decano della professione, Martin Feldstein, per il quale – già in un saggio del 1994 – l’unione monetaria avrebbe voluto dire non solo rallentamento della crescita nell’Ue, ma anche tendenze separatiste che avrebbero portato a conflitti, pure armati.
Gli interrogativi posti da Chang riecheggiano anche in note interne del servizio studi della Banca centrale europea e della Banque de France – due delle vestali dell’unione monetaria. Esigono risposte che non siano meramente di ingegneria finanziaria: l’eventuale fallimento del progetto dell’unione monetaria – negli ultimi sessanta anni se ne sono sciolte una dozzina e ne è sorta una sola – darebbe un colpo durissimo all’Ue e riporterebbe il progetto d’integrazione europea indietro di diversi decenni.
Cosa fare? Il settimanale “The Economist” ha delineato, nel fascicolo in edicola il 14 gennaio, un “Piano B”. Altri economisti hanno tratteggiato percorsi per tornare, contendendone costi (e sofferenze), a un sistema europeo “alla Bretton Woods”, con un aggancio a un paniere di monete forti, limitata flessibilità attorno a parità centrali e gestione collegiale dei cambi.
Tacciare di “anti-europeismo” queste proposte e ignorarle, nella speranza che un maggior coordinamento delle politiche economiche dei 17 dell’eurozona risolva i problemi, vuole dire chiudersi gli occhi. Il modo migliore per andare verso il baratro senza volersene accorgere.