L’ultima alleanza è con la russa Sollers (gruppo Severstal che fa capo all’oligarca Alexei Mordashov) per produrre mezzo milione di vetture entro il 2016. Prima c’è stata la Serbia per un impianto che andrà a regime nel 2012. Russia e Serbia evocano la Fiat di Valletta, quella di Togliattigrad e della Zigulì, o della Zastava nella Jugoslavia di Tito.
Sergio Marchionne prosegue come un rullo compressore nel delineare la fisionomia di un gruppo davvero multinazionale. «È inimmaginabile senza le sue radici italiane», così dice l’amministratore delegato, ma i rami sono disseminati in diverse parti del mondo e il tronco sempre più innestato nel grande tronco di Detroit. Questo, almeno, è il progetto. Ciò significa che dall’anno prossimo, quando comincerà davvero il rimescolamento produttivo, vedremo modelli di auto spostarsi da un impianto all’altro, fabbriche trasformate, ridimensionate o addirittura chiuse.
In Europa il polmone sarà in Polonia, anche grazie all’invidiabile situazione economica del paese, unico nell’Unione ad aver attraversato la recessione senza che il Pil scendesse sotto zero. In America, c’è il Brasile, in attesa che decolli l’integrazione con Chrysler la quale porterà negli Stati Uniti senz’altro la Lancia, probabilmente l’Alfa, insomma le vetture dei segmenti C e D. Inoltre, è tempo di mettere in produzione nuovi modelli, perché sembra che sia stato spremuto tutto il sugo possibile dagli attuali, anche quelli di successo. Marchionne sostiene di avere i cassetti pieni di progetti. Stiamo a vedere, sperando che non si tratti di restyling.
La Fiat dovrà affrontare il mercato senza gli incentivi pubblici. Una scelta obbligata e una scelta salutare. Noi lo avevamo auspicato e non possiamo che confermarlo. Adesso il re è nudo. Tutti sono nudi. E occorre ragionare su una politica economica che ci sottragga alla condanna della stagnazione come quella descritta da Mario Draghi nel discorso del Forex, sabato scorso.
Volenti o nolenti, proprio il buon andamento dell’auto e della Fiat in particolare, ha contribuito a tirar su quei pochi spiccioli di crescita, già dissolti nell’ultimo trimestre dell’anno. L’effetto si è spento e nessun altro ramo industriale può avere un simile volano. Quindi, è inutile continuare con sostegni settoriali, bisogna passare a una strategia orizzontale.
Dato che i vincoli di bilancio non sono eludibili, tanto meno in un anno in cui tutti i governi cercheranno di far partire la exit strategy, la politica fiscale deve seguire la via maestra che passa attraverso una riduzione delle imposte in grado di sostenere i redditi. Affinché sia credibile, bisogna ridurre la spesa pubblica. Quella sociale non si può toccare in questa fase della congiuntura, quindi non resta che tagliare in modo significativo i tentacoli del nuovo Leviatano.
Uno slogan astratto? Nient’affatto, se si pensa a come è cresciuta la burocrazia in anni in cui bisognava riorganizzarla secondo un disegno federale. Il proliferare delle province sta lì a dimostrarlo. Poi sarà possibile affrontare anche le pensioni. Silvio Berlusconi ne ha parlato in sede europea. Tutti ne parlano. In Spagna il governo si è diviso sulla proposta di aumentare di due anni contributi ed età pensionabile. Il doloroso riaggiustamento dei conti pubblici in Grecia riaprirà il problema in tutta l’Unione e spingendo verso vere e proprie politiche coordinate. Perché la bolla del debito rischia di far saltare davvero l’euro.
In questo scenario, qual è la sorte dei lavoratori di Termini Imerese? E di quelli che usciranno da impianti che prima o poi la Fiat sarà spinta a ridimensionare (basti pensare a Pomigliano d’Arco)? Nel caso siciliano il problema più acuto riguarda circa 800 dipendenti su 1600, i quali non posseggono ancora i requisiti per la mobilità agganciata alla pensione. Ma una soluzione per loro, come per l’intera area industriale, non passa attraverso sussidi pubblici ad aziende che non hanno alcuna possibilità di camminare con le proprie gambe.
L’auto elettrica siciliana con capitali cinesi o arabi, una delle tante idee che circolano, non sembra molto realistica. Chissà se c’è qualche proposta concreta dentro un istituto di credito come il Banco di Sicilia che ha ottenuto di impiegare nell’isola la maggior parte del denaro raccolto dai risparmiatori siciliani, anziché trasferirlo alla casa madre Unicredit. Presidente del Banco è Ivan Lo Bello il quale è anche presidente della Confindustria regionale, quindi preoccupato come pochi della sorte di Termini Imerese.
Si parla di una cordata di imprenditori locali disposta a scendere in campo. È una strada interessante, purché non sia il cavallo di Troia del solito assistenzialismo. Mobilitare gli animal spirits è molto più sano che continuare con il vecchio sistema clientelare e statalista.