Un po’ di chiarezza appare necessaria. Quello che sembrava un salvataggio ormai annunciato, ovvero il sacrificio dei partner europei per venire incontro alla Grecia e al suo rischio di default e contagio dell’intera eurozona, assume giorno dopo giorno sempre più i contorni di un giallo. O, peggio, di una sonora presa in giro.
Difficile che la stampa italiana, ad esempio, abbia raccontato di quanto avvenuto nello scorso fine settimana in Olanda, dove alla Tweede Kamer del Parlamentro è passata una mozione in base alla quale «non un centesimo delle tasse degli olandesi dovrà essere stanziato per salvare la Grecia». Questo anche attraverso l’Ue o altri organismi bilaterali. La Germania, poi, non dimostra maggiore apertura, nonostante Angela Merkel sia stata di fatto l’artefice dell’iniziativa europea.
Il Bundestag ha di fatto definito “illegale” il salvataggio di Atene e un sondaggio della Frankfurter Allgemeine Zeitung ha evidenziato come la quasi totalità dei contribuenti tedeschi sia contraria a ogni ipotesi di bail-out, salvataggio, poiché «appare inaccettabile l’innalzamento dell’età pensionabile per i tedeschi a fronte del finanziamento a fondo perso della Grecia, quasi i suoi cittadini possano godersi la pensione anticipata grazie alle nostre tasse». Evviva l’Europa unita!
A far capire che i guai potrebbero essere solo all’inizio ce lo fa capire l’atteggiamento della SAFE, il mega-fondo riserva cinese, che non sta scommettendo un solo yuan del suo capitale di 2,4 trilioni di dollari sulla Grecia o sul Club Med e il suo debito. SAFE è lo stesso player che scaricò bellamente le azioni di Fannie Mae e Freddie Mac quando pareva che Washington stesse per dire addio alle politiche di semi-nazionalizzazione.
Una cosa è certa: il mercato finanziario guarda affascinato a quanto sta accadendo in Europa. Anche perché, lentamente, emergono particolari allarmanti. È di ieri infatti la notizia che i partner Ue intendono chiedere chiarezza alla Grecia riguardo le sue pratiche di swap per rifinanziare il debito negli scorsi anni, rese possibili dal lavoro di Goldman Sachs, JP Morgan Chase e Morgan Stanley, i cui emissari si sono recati a più riprese ad Atene per offrire consulenze sulle meravigliose sorti e progressive degli strumenti di finanza derivata per rifinanziare quel buco nero chiamato debito.
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Grazie a quei giochini, simili in parte a quelli che hanno inquinato i conti di tre quarti degli enti locali italiani, il debito greco appariva molto sotto il livello reale, permettendo quindi di non incorrere nella mannaia né delle agenzie di rating – che invece sapevano benissimo come stavano le cose, essendo pappa e ciccia con le banche d’affari che offrono quei prodotti – né dell’Unione Europea. A denunciare l’accaduto ci ha pensato il New York Times, raccontando come l’ultima visita di emissari di Goldman Sachs, guidata nientemeno che dal presidente in persona, si sia tenuto lo scorso novembre, insomma quando i buoi erano ormai fuori dal recinto e servivano misure d’emergenza.
I contratti, estremamente complessi, si basavano di fatto su un criterio molto semplice: denaro contante a fronte di un promessa di ripagare, con gli interessi garantiti dallo swap, in futuro. Swap è un termine inglese (letteralmente baratto, scambio) utilizzato per identificare quei contratti finanziari in cui due controparti si impegnano a scambiarsi flussi monetari in entrata o in uscita, e a compiere l’operazione inversa a una data futura predeterminata.
Il caso di scuola è quello di un ente locale, che ha contratto un mutuo di 100 miliardi tasso fisso (10%) con la Cassa depositi e prestiti, e che deve quindi pagare periodicamente degli interessi (10 miliardi l’anno). L’operazione si rivela onerosa in seguito alle mutate condizioni di mercato, e l’ente decide quindi di legare il mutuo a un parametro di indicizzazione (un tasso del 5%) maggiorato di uno spread (un differenziale) del 5%, scommettendo su un ribasso dei tassi di interesse. Stipula così un contratto di swap con una banca, la quale garantisce il tasso fisso contro quello variabile.
Se il tasso variabile aumentato dello spread è inferiore al tasso fisso, e scende ad esempio attorno all’8%, l’ente ne ottiene un vantaggio, può ridurre le sue spese e di conseguenza il suo deficit. Viceversa, se il mercato fa salire i tassi e l’onere complessivo schizza sopra il 10%, sarà la banca a incassare di più, e l’ente vedrà salire le sue spese e il suo deficit. Il caso può essere traslato dagli enti locali agli Stati, che si indebitano sui mercati internazionali con emissioni obbligazionarie in valuta locale o estera, sulle quali sono costrette a pagare dei tassi di interesse.
A cosa abbiano portato queste continue pratiche, è ora sotto gli occhi di tutti. Insomma, Wall Street non ha creato la crisi del debito greco ma l’ha coperta per mesi: e il timore, almeno così si paventa a Londra, è che altri paesi si siano fatti sedurre da questi contratti swap per tenere sotto controllo il debito pubblico galoppante. I nomi che circolano sono quelli di Spagna, Portogallo e Italia: ovvero, gli altri tre membri dei Pigs.
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Tremonti farebbe bene a dare un’occhiata, visto che è noto a tutti che nel 1996 l’Italia ha stipulato un contratto swap con JP Morgan, un’operazione sui derivati che permise di riportare il budget in linea attraverso uno swap monetario con la banca d’affari a un tasso di cambio favorevole. Il problema è che quel tipo di contratto, che permise al governo italiano di ottenere denaro fresco, aveva come clausola il fatto che i futuri pagamenti effettuati dall’Italia non sarebbero stati messi a bilancio come liabilities, ovvero fonte di perdita.
I derivati sono strumenti straordinari, peccato che bisogna saperli utilizzare. Ed evitare le scatole cinesi dei derivati sui derivati. Ripeto, Tremonti dia una bella occhiata a quanto fatto e pattuito in passato, a New York non mettono la mano sul fuoco sulla stabilità del debito italiano e anche l’uscita di Jean-Claude Trichet di domenica non dovrebbe farci stare troppo sereni.
La crisi greca, nei fatti, non rappresenta la fine dell’eurozona ma certamente l’inizio della fine: troppo difficile mantenere insieme economie così differenti in tempi difficili come questi, troppo forte ancora la spinta egoistica e sovrana dei vari governi a fronte di un’inconsistenza politica totale di Bruxelles. Occorre coraggio, a partire da casa nostra.
Tremonti butti l’occhio, i continui stop-and-go sull’abbassamento delle tasse, l’ipotesi di contro-finanziarie e altri allarmi – come quello di Baldassarri a Ballarò, «In cassa non c’è più una lira» – fanno pensare che a New York abbiano ragione. Occhio a come si muoveranno i fondi e come varierà il numero di contratti contro euro e debito di Pigs e Italia al Chicago Merchantile Exchange: le prossime settimane, forse, ci diranno la verità. Non potrebbero non essere cose piacevoli da sentire.