Il referendum britannico sulla permanenza nell’Unione europea, meglio conosciuto come Brexit, si sta avvicinando e, con l’approssimarsi del 23 giugno, i sondaggi mostrano un epilogo quantomai incerto. E i riflessi si vedono anche sui corsi borsistici e sul cambio della sterlina, indicando che quanto accadrà nel Regno Unito avrà riflessi diretti sull’intero sistema finanziario mondiale. Nelle ultime tre settimane, infatti, chi combatte sul fronte della permanenza nell’Ue ha incentrato la sua campagna sulle – presunte – apocalittiche conseguenze economiche per la Gran Bretagna in caso di vittoria dei no: Londra, intesa come potere politico, ma anche Bruxelles e Washington, chiedono ai cittadini britannici di votare come vogliono le elites e non lesinano lezioni di vero e proprio terrorismo psicologico. Dal Fmi alla Casa Bianca, dalla Commissione Ue alla Bce fino al 10 di Downing Street e alla Bank of England, il messaggio è univoco: se si esce, l’apocalisse è dietro l’angolo.
Nonostante questo e nonostante la messe di denaro messa in campo dal governo britannico per convincere i cittadini che restare nell’Ue è la scelta giusta, il grafico a fondo pagina ci dimostra che il supporto per il Brexit non solo è vivo e vegeto, ma senza trucchetti all’austriaca con il voto postale, il rischio di un testa a testa fino all’ultima scheda è tutt’altro che escluso. Ma c’è un fondamento alle minacce delle istituzioni o si tratta soltanto di propaganda?
Partiamo da un presupposto chiaro: quando la Gran Bretagna aderì alla Cee, il prodromo dell’Ue, nel 1973, la sua motivazione primaria era quella di incrementare le quote commerciali integrandosi in quella che era la zona di libero scambio più grande al mondo. Punto. Con il tempo e gli anni, però, il vero progetto dei cosiddetti padri nobili dell’Unione si è disvelato, tramutando un’area di libero scambio commerciale per Paesi sovrani in un Superstato che giorno dopo giorno ha puntato su sempre maggiore regolamentazione degli affari economici e della popolazione, oltre che su un controllo orwelliano sulle leggi dei vari membri che nulla hanno a che fare con il commercio.
E sapete quale sarà il futuro, almeno nell’idea di Leviatano che hanno a Bruxelles? L’Ue intende infatti dividere il Regno Unito in otto regioni amministrative, tutte che dovranno rapportarsi e fare riferimento diretto a Bruxelles. Di più, se Nord Irlanda, Scozia e Galles resteranno entità a sé stanti e integre, l’Inghilterra sarà divisa appunto in otto regioni, alcune delle quali – quelle costiere – saranno accorpate a regioni di Portogallo, Francia, Olanda e Germania. Anche la Manica cambierà nome nei programmi degli euroburocrati e, dulcis in fundo, il progetto è quello di documenti e riferimenti fiscali europei e non più nazionali, prodromo a una regime di tassazione non più sovrano per ogni Stato.
Ovviamente, tutte queste cose non sono state menzionate minimamente nel dibattito, visto che il 90% dei media è schierato a favore della permanenza britannica nell’Ue. No, l’unico mantra deve essere il terrorismo in chiave economica, instillare il terrore per la catastrofe che colpirà risparmi e posti di lavoro se sarà il Brexit a vincere.
In Gran Bretagna qualche intellettuale fuori dal coro ha definito quanto sta accadendo Project Fear, il “progetto paura”, ovvero una strategia politico-mediatica che prescinda da qualsiasi valutazione fredda e razionale e si concentri unicamente sui più bassi istinti di conservazione dello status quo della popolazione. Un’operazione deliberata di disinformazione. L’argomento principe è rappresentato dal fatto che, avendo il Regno Unito il 50% del proprio commercio attuale con l’Ue, l’uscita dall’Unione porterebbe a un disastro economico e monetario: ma siamo proprio sicuri che andrebbe così? Davvero da un giorno con l’altro la Gran Bretagna si ritroverebbe a fare i conti con un nuovo presente da nazione in via di sviluppo?
Stando a dati del Fmi del 2015, quella britannica è la quinta economia mondiale: alla luce della persistente stagnazione economica è l’Ue che non può permettersi di perdere il Regno Unito, non il contrario. Stando a dati dello scorso mese di marzo dell’Office for National Statistics, la Gran Bretagna ha un bilancio commerciale negativo in beni con l’Ue per mediamente 8 miliardi al mese nel primo trimestre: se per caso il Regno Unito dovesse decidere di andarsene senza negoziare un accordo commerciale indipendente, l’economia dell’Ue andrebbe a fronteggiare una perdita potenziale di 96 miliardi l’anno. Londra, inoltre, è stato il secondo contributore netto al budget Ue lo scorso anno, il che significa che le otto regioni inglesi (escludendo Galles, Scozia e Irlanda del Nord, considerate relativamente povere) potrebbero in aggregato essere il secondo fornitore di trasferimenti monetari intra-Ue dalle cosiddette aree ricche a quelle povere del Sud ed Est Europa: in tal senso, è Bruxelles ad avere bisogno di Londra, non il contrario.
Il campo pro-Ue ignora completamente e volutamente l’aspetto del bilancio commerciale e, come ha fatto il presidente Barack Obama, il quale da buon americano non ha perso occasione per mettere il becco in fatti sovrani che non lo riguardano, minaccia la Gran Bretagna di isolamento economico, prefigurando un futuro da Svizzera. Paese, quest’ultimo, che non è membro Ue e che vanta un’economia che vale meno di un quarto di quella britannica, ma che tra il 2009 e il 2013 ha esportato, in media, 4,6 volte il valore per persona verso l’Ue di quanto abbia fatto la Gran Bretagna essendo membro dell’Unione, come denunciato – senza smentite – dall’europarlamentare William Dartmouth nel giugno 2015 con il report The Truth About Trade Outside the EU.
Al netto di questo, pensate davvero che uscendo dall’Ue, il Regno Unito non sia in grado di negoziare un accordo commerciale con l’Unione buono almeno quanto quello svizzero, oltretutto essendo Londra sede della City? E questa non è una teoria nuova, perché l’approdo finale svizzero era quello che improntava ogni mossa in ambito europeo di Margaret Thatcher, Dio l’abbia in gloria. Inoltre, l’Ue negozia accordi commerciali attraverso la Wto nel primario interesse suo, non del Regno Unito, mentre la Gran Bretagna avrebbe tutto da guadagnare nell’implementazione di accordi commerciali liberi, soprattutto con gli Usa e i Paesi del Commonwealth. Tanto più che l’Unione non ha accordi commerciali con Cina e Giappone, quindi operando sovranamente e liberamente fuori dall’Ue, la Gran Bretagna potrebbe negoziare da posizione di forza e di interesse particolare, non essendo 1 dei 28 membri ma nazione sovrana. Inoltre, senza regolamentazioni europee e vincoli, l’economia britannica potrebbe rinvigorirsi, soprattutto nel settore delle Pmi.
Ma oltre alla chiave economica, il fronte Ue punta molto anche su quella monetaria, facendo intendere che in caso di Brexit la sterlina, ancora oggi tra le cinque monete di riferimento globale, crollerebbe. Peccato che in un mondo, come quello attuale, in cui vige un guerra valutaria senza esclusione di colpi attraverso il dumping delle Banche centrali e dei loro programmi di stimolo più o meno dichiarati, in caso di tonfo del pound sarebbe tutto interesse di Fed, Bce, Bank of Japan e anche Bank of China di inondare il mercato per evitare un collasso non solo della sterlina ma dell’intero universo delle valute fiat. Di fatto, paradossalmente, una crisi da Brexit garantirebbe la scusa per più Qe e più stimolo, ciò che le Banche centrali maggiormente desiderano in un momento come questo, visto che la correzione dei corsi pare all’orizzonte, la recessione negli Usa è a un passo e l’Ue stagna in deflazione. Insomma, un’altra falsa e strumentale paura. Inoltre, non essendo il Regno Unito nell’eurozona, un Brexit andrebbe a minacciare l’euro: quindi, la paura del fronte guidato da David Cameron è paradossalmente indirizzata per la valuta unica, non per la sterlina.
Il problema del Brexit, come avete visto, non è affatto economico ma tutto politico, perché se il popolo britannico deciderà di uscire dall’Ue e riguadagnare la propria sovranità aprirà il vaso di Pandora dell’euroscetticismo, il quale già oggi guadagna giorno dopo giorno consensi in tutta Europa, dalla Francia alla Polonia, dalla Repubblica Ceca alla stessa Germania di Alternative fur Deutschland. E che dire di Paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo o l’Italia, i cosiddetti Pigs? Dopo anni di troika e lacrime e sangue, quanto sarebbe forte la tentazione di far saltare il banco per vedere cosa accade davvero, non avendo pressoché più nulla da perdere (se non onoro il debito, è il creditore a rimetterci)? Il Brexit sarebbe la miccia dell’esplosione dell’eurozona, non la pietra tombale dell’economia britannica o della sterlina.
Certo, se la mattina del 24 giugno la Gran Bretagna si sveglierà con il Brexit vincitore, ci saranno shock di breve termine sui mercati: valute, equities, bond e metalli preziosi reagiranno, magari brutalmente, ma state certi che le elites finanziarie e le Banche centrali non perderanno tempo e tamponeranno gli effetti di breve-medio termine senza che si arrivi all’apocalisse. Basterà prendere atto dell’accaduto e far partire in tempi praticamente zero negoziati tra la Gran Bretagna e l’Ue, commerciali e non solo e la fine del mondo sarà evitata.
Ma questo non accadrà, a Bruxelles non possono permettersi che il Brexit vinca. E non vincerà. costi quel che costi.