Il panorama politico europeo, dopo le elezioni francesi, desta nei mercati (e non solo) molte speranze. Perché, ci si può però chiedere, tutto questo ottimismo sulla capacità di Macron e Merkel di riuscire a riformare l’Europa, quando Sarkozy-Merkel e Hollande-Merkel non ci sono riusciti? La risposta non è certa, ma a favore dell’ottimismo depone il fatto che l’eurozona si trova oggi in una fase ciclica di maggiore forza rispetto agli anni della crisi più acuta.
Ma si tratta di un’arma a doppio taglio. Il miglioramento delle condizioni della Ue, sostenuto dalla ripresa dell’attività manifatturiera, dell’occupazione e degli indici di Borsa, porta acqua al mulino di chi chiede di interrompere il più in fretta possibile gli acquisti di titoli da parte della Bce che, secondo programma, dovranno finire entro dicembre. In questa cornice, la missione che Emmanuel Macron si accinge ad affrontare a Berlino appare complessa e insidiosa. Il presidente francese deve confidare in una maggiore disponibilità tedesca a concedere qualcosa (non molto) per dare forza al suo programma, in parte fotocopia di quanto i leader del Sud Europa hanno realizzato o tentato di realizzare in questi anni: taglio della spesa pubblica e liberalizzazione del mercato del lavoro. Il tutto in una situazione probabilmente più difficile di quella italiana: il Bel Paese è ormai avvezzo ai tagli di bilancio e ad avanzi del fabbisogno siderali. La Francia, che da anni marcia al ritmo di deficit tra il 5% e il 6 % e si avvicina al rapporto 1 a 1 tra debito e Pil, rischia di essere un pessimo allievo di frau Merkel. È vero che Parigi vanta una crescita (modesta) del Pil nell’ordine del 15% da inizio millennio contro lo zero italiano. Ma questo è stato possibile grazie a investimenti che l’Italia non ha potuto effettuare.
Insomma, al di là di forti iniezioni di retorica, l’approccio tra Merkel e Macron non sarà dei più facili. Anche perché la Germana, alla vigilia delle elezioni, non intende certo allargare i cordoni della Borsa. Forse, sarebbe possibile trovare una quadra se l’affaire riguardasse solo i due Paesi. Ma, ahimè, un cedimento a Parigi offrirebbe all’Italia il pretesto per invocare una politica più espansiva a Bruxelles, proprio quel che l’asse Merkel-Schaeuble non intende affatto concedere.
E qui entra in campo la madre di tutte le battaglie, cioè gli equilibri all’interno della Banca centrale europea, l’unica autentica istituzione comunitaria indipendente dalle pressioni degli Stati. Come dimostra l’attacco, estremamente aggressivo, subito da Mario Draghi nella recente audizione al Parlamento olandese. In direzione opposta l’affondo del vice di Draghi Vitor Constancio (“la fine della politica espansiva si ritorcerà contro i Paesi più forti”) conferma che la situazione è sempre più tesa. La Germania, in particolare, sopporta sempre meno la politica di Mario Draghi che, nei fatti, ha sterilizzato lo spread, l’arma più potente dell’arsenale europeo come abbiamo imparato nella crisi del 2011.
Ma si può tonare indietro? Dal 2011 in poi abbiamo avuto più conferme che quella politica non funziona. Ma la Germania non vede alcuna ragione per mutualizzare la sua forza finanziaria ed economica a favore dei partners. Di qui il timore che presto la crisi tornerà a farsi acuta. Non illudiamoci che il più sia già atto, tra una Marsigliese e un Inno alla Gioia. Speriamo che l’ottimismo di oggi non ci conduca alle Mille Bolle Blu.