Caro direttore,
Non rammento di averle scritto in questi anni in cui il giornale che dirige è nato e cresciuto. Ma, vede, volevo condividere con lei e i suoi lettori alcune riflessioni sulla situazione del vostro Paese. Non con il tono da “sermone” di uno straniero che viene da un Paese che realmente non ha molto di cui vantarsi, ma da un uomo che da diverso tempo osserva l’Italia dall’interno e dall’esterno. Mi è parso in questi giorni che il renzismo, quasi come un virus che approfitta di questa estate fresca e piovosa, si sia diffuso contagiando anche i colleghi di governo del Premier. Ho avuto questa impressione leggendo l’intervista a Maurizio Lupi pubblicata sul suo giornale. Mi è sembrato che le sue parole sui sindacati e il referendum riguardante il costo del lavoro del personale Alitalia potessero essere uscite pari pari dalla bocca di Renzi.
La tesi per la quale chi si oppone ai disegni governativi è grosso modo un “visionario” o un “sovversivo” asservito ad antichi “rituali” non è più dunque “esclusiva” del presidente del Consiglio. Poco importa che il referendum sia stato promosso da tre sigle sindacali sulle sette-otto complessive. Poco importa se i lavoratori sono stati avvisati dall’azienda a urne già aperte. Poco importa se i seggi sono rimasti accessibili meno di 48 ore. Poco importa se gran parte dei lavoratori con diritto di voto erano impegnati a lavorare dall’altra parte del mondo, com’è logico che sia in una compagnia aerea. Poco importa tutto questo quando si sostiene che il referendum è valido e legittimo. Spero almeno per lei e per gli altri cittadini italiani che al momento di un altro referendum, quello già annunciato sulla riforma del Senato, si seguano ben altri criteri.
Speravo, caro direttore, che le mie riflessioni si potessero fermare qui. Tuttavia il renzismo inesorabile avanza con il suo profumo di novità. E il ministro Lupi può quindi dichiarare che Poste Italiane è un’azienda che sta sul mercato (con tutti i limiti che il suo giornale ha avuto modo di evidenziare in passato) e che può investire i suoi profitti “cercando sinergie utili per il proprio sviluppo”. In una compagnia aerea? Stentavo a credere ai miei occhi, eppure ho scoperto che il ministro non si sbaglia. Lo statuto di Poste Italiane parla chiaro. L’articolo 4 comma 1 chiarisce che la società ha per oggetto l’esercizio: “dei servizi di pacchi, corriere espresso e in generale dei servizi di logistica, nonché dei servizi di trasporto, anche aereo, di persone e cose in Italia e all’estero” (lettera c); “della distribuzione e della vendita di biglietti delle lotterie nazionali e di titoli e documenti di viaggio” (lettera f). Inoltre, il comma 3 dello stesso articolo specifica che “la società potrà compiere tutte le operazioni ritenute necessarie od utili per il conseguimento dell’oggetto sociale, e a tal fine potrà quindi, a titolo esemplificativo, compiere operazioni immobiliari, mobiliari, commerciali, industriali, finanziarie […] e di vendita di beni e servizi comunque collegati con l’oggetto sociale, nonché operazioni finalizzate all’integrazione con altri operatori attivi nella logistica e nel trasporto, ivi incluso l’aerotrasporto”.
In buona sostanza, Poste Italiane può occuparsi del trasporto di persone e della vendita di titoli di viaggio. Può quindi investire in qualunque azienda del settore (non solo aeronautico ma anche navale, ferroviario, ecc.) o scegliere di costituire una società ad hoc per questo scopo. Il tutto senza violare alcuna regola. Del resto lo statuto della società è stato approvato dal suo Consiglio di amministrazione.
Le mie ricerche, però, caro direttore, non si sono fermate. Possibile che un’azienda che esiste dai tempi dell’Unità d’Italia in oltre 150 anni di vita e con tale statuto non abbia ancora una sua compagnia di trasporti ma solo una partecipazione di circa il 20% in un’azienda praticamente fallita? Che sciocco sono stato a non ricordarmi che gli articoli dello statuto che ho appena citato sono stati modificati meno di un anno fa. Guardi direttore, cliccando qui (allegato B, pagina 8) può vedere com’era lo statuto di Poste Italiane prima del novembre 2013. Vedrà che di trasporti di persone, di biglietti e di aeroplani non c’è traccia.
Come si spiega tutto questo? Semplice, il “rottamato” Governo Letta (di cui Lupi faceva parte) aveva “convinto” Poste Italiane a cambiare il proprio statuto per investire 75 milioni di euro in Alitalia. In che modo? Semplice anche questo: l’unico azionista di Poste è il ministero dell’Economia, ovvero il Governo stesso. Tutto chiaro, no? Letta, Saccomanni (Mef) e Sarmi (Poste) sono stati gli artefici di questa operazione. Ora nessuno dei tre occupa più il posto di allora. Le loro poltrone sono state prese rispettivamente da Renzi, Padoan e Caio.
E arrivato a questo punto, caro direttore, mi sono reso conto che la novità del renzismo è solo “fuffa”. Di fronte a questa palese stortura, con l’utilizzo di un’azienda pubblica quale cassaforte per attingere risorse da utilizzare a proprio piacimento, un Governo riformista avrebbe cambiato rotta, avrebbe impresso una svolta (termine tanto caro a Renzi). Invece no, siamo qui a sentirci dire che l’investimento di Poste Italiane (il cui importo, come si è appreso nelle ultime ore, sembra poter essere di 65 milioni) in Alitalia serve a cercare “sinergie utili per il proprio sviluppo”. Perché proprio Alitalia e non Meridiana, Air France, Lufthansa o qualunque altra compagnia aerea del mondo dovrebbe garantire tale sviluppo? Perché Poste italiane non investe nel trasporto marittimo? Perché non attiva una joint-venture con un tour operator e non si dedica al business delle vacanze?
Non mi aspetto delle risposte dai “manovratori” che non vogliono essere disturbati. La conclusione cui sono arrivato è che l’investimento in Alitalia serve a tutelare posti di lavoro e il mantenimento in vita di una compagnia aerea che per tanti anni ha rappresentato l’Italia nei cieli. Un modo per non vedere aumentare la disoccupazione e assistere al fallimento, visto che nessuno vuole metterci risorse, di un “simbolo” del vostro Paese. Ma è così difficile ammetterlo candidamente comportandosi come ha fatto in passato e fa tuttora il Governo francese, come si è visto nella vicenda Alstom? E perché non modificare ancora lo statuto di Poste italiane per dare sostegno ad altri settori e ad altri posti di lavoro messi seriamente in discussione dalla crisi?
So, caro direttore, che non posso illudermi di avere una qualche risposta. E ancor più amareggiato mi rendo conto di aver sbagliato anche a considerare il renzismo un fenomeno di innovazione nella politica italiana. Se Alan Friedman parla di ammazzare il gattopardo, il Premier ha semplicemente trovato la formula per “ammaestrare” il cambiamento che non cambia nulla. E mi accorgo anche che non c’è alcun “virus” contagioso: anche il precedente “capo” del ministro Lupi, tal Silvio Berlusconi, è uno che non ritiene corretta una posizione diversa dalla sua (persino quando la cambia rispetto al passato contraddicendosi).
Alla fine, caro direttore, guardo l’Italia preoccupato. Ma comincio a capire perché Beppe Grillo ha trovato terreno fertile nel suo Paese. E a lei ai suoi concittadini auguro un futuro e una democrazia migliori, dove chi esprime la propria opinione non venga più additato come un ostacolo al rinnovamento ritenuto necessario del Paese. Una volta tali erano considerati i reazionari dai comunisti. O se preferisce gli oppositori del regime. Del resto quando sono nato nel mio Paese c’era ancora Franco, per lei invece Mussolini può essere solo il protagonista di un racconto di un’Italia ormai lontana. O forse no?