Più che un nuovo governo, servirebbe un cambio di paradigma. Bene ha fatto il neo-premier Gentiloni a sottolineare come il suo esecutivo sia pronto a intervenire su Monte dei Paschi in caso di necessità, visto che nella situazione in cui siamo non si può scherzare con il fuoco di una crisi bancaria sistemica in piena regola. Certo, si fosse intervenuti prima, invece di limitare l’azione del governo alla rimozione di Viola per far spazio a Morelli e alla ricetta tutta mercato di JP Morgan, forse non ci ritroveremmo ora con il cerino in mano a 15 giorni dalla scadenza prefissata per l’aumento di capitale da 5 miliardi. E lo stesso Morelli sembra ora operare uno scaricabarile, visto che ha detto chiaro e tondo che la vittoria del “No” ha allontanato il principale cavaliere bianco atteso per la ricapitalizzazione, ovvero il fondo del Qatar.
Ora, quanto possa interessare in Qatar del bicameralismo paritario e del Cnel mi è oscuro, ma una cosa è certa: se il mercato dice picche, non c’è che la nazionalizzazione. O, in subordine, l’attivazione dei fondi Mes che il governo può compiere anche senza l’ok del Parlamento. A quel punto, avremo la troika in casa: immagino che Gentiloni userà questa ipotesi come ultima ratio essendo il suo un governo di transizione e la scelta di coinvolgere l’Europa invece un vincolo di lungo termine.
Parlavo prima di un cambio di paradigma e a confermarne la necessità sono i risultati dell’indagine condotta da Openpolis per Repubblica e pubblicati ieri: negli ultimi dieci anni la povertà in Italia è più che raddoppiata, salendo addirittura del 141%. Oggi, infatti, 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia, basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Sempre nel 2005, i poveri erano 588mila al Nord e poco più di un milione al Sud, mentre adesso sono rispettivamente 1,8 e 2 milioni circa. Parliamo di persone che non hanno il problema di rischiare qualcosa in caso di bail-in sulle obbligazioni subordinate di una banca, ma di uomini e donne che non possono permettersi spese essenziali come quelle per gli alimenti, la casa, i vestiti, i mezzi per spostarsi, né le medicine o le cure specialistiche. E la probabilità di essere poveri è cresciuta soprattutto tra chi si trova ai margini del mercato del lavoro, come i giovani e coloro che sono in cerca di occupazione, tanto più che emerge chiaro come il lavoro – per come si è configurato dopo la crisi – a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti: tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9% all’11,7%. Può il nostro welfare – concepito in un altro contesto storico – dare risposte a questa massa di persone? No, è infatti non lo fa.
Vediamo qualche dato. Primo, quello della povertà relativa. Il discrimine tra povero e non povero non è infatti la capacità di acquistare un paniere di beni essenziali, ma una linea di povertà convenzionale, che per l’Istat è la spesa media per consumi pro capite: se si contano le persone al di sotto della linea di povertà relativa, oggi i poveri sono 8,3 milioni, vale a dire il 13,7% della popolazione (contro l’11,1% del 2005). Ci sono poi le famiglie povere, il cui numero è quasi raddoppiato: erano 819mila nel 2005, mentre oggi sono quasi 1,6 milioni, con un balzo dal 3,6% al 6,10%. Su 100 famiglie, 6 non possono permettersi un tenore di vita accettabile. Ma il disagio è ancora più vasto, stando ad altri indicatori: il 38,6% delle famiglie non può far fronte a spese impreviste (erano il 29% nel 2005), mentre sono aumentate del 65% quelle che non possono permettersi di riscaldare la propria abitazione e dell’81% quelle che non consumano pasti proteici almeno 3 volte a settimana.
E ancora: nel 2015, le famiglie più giovani – ovvero quelle che dovrebbe rappresentare il futuro del Paese – sono anche quelle più povere. Non può permettersi uno standard di vita dignitoso una famiglia su dieci tra quelle con capofamiglia sotto i 34 anni, mentre si trova in povertà assoluta circa l’8% delle famiglie all’interno delle quali la persona di riferimento ha tra i 35 e i 54 anni. E dove non arriva il welfare statale, arriva quello familiare, ovvero i parenti che danno una mano, ma questo aiuto non può durare in eterno e, inoltre, va a ledere qualcosa di estremamente sensibile, la dignità delle persone. Infine, il dato che forse impressiona di più, quello della povertà infantile. La quota di bambini in situazioni di grave disagio materiale è cresciuta, con la crisi, in 7 Paesi europei su 28: dopo la Grecia, dove oggi oltre un bambino sotto i 6 anni su cinque vive una condizione di grave privazione materiale, l’Italia è il secondo Paese dove è aumentata di più la povertà infantile (+5,3 punti percentuali tra 2006 e 2015).
Parliamo dell’Italia, Paese che fa parte del G7: sembrano numeri degni di un periodo post-bellico, invece sono numeri di un periodo post-recessivo che per il nostro Paese non ha conosciuto ancora l’annullamento del prefisso post. Può il governo Gentiloni porre mano a una situazione simile? Occorre essere onesti, quantomeno in rispetto di questa massa di connazionali che sta veramente male: o questo governo è solo di scopo per fare la legge elettorale e andare al voto (ma non si spiegherebbero spostamenti significativi in dicasteri chiave come Esteri e Interno) o è un governo che si dà tempo fino alla fine della legislatura per compiere riforme e interventi ormai inderogabili per il Paese.
Tutti sanno che l’altolà a verdiniani nell’esecutivo è arrivato dal presidente Mattarella per facilitare un disgelo tra le due anime del Pd e il mercantilistico “no” di Verdini alla fiducia al governo ci mostra quali siano le reali mire di Ala e soci, ma non si può vivere e operare sul sottinteso: ovvero, è altrettanto chiaro che quello di Berlusconi al nuovo esecutivo non è affatto un “no” come per Salvini e Meloni, bensì un “Ni” condizionato a certe scelte. Se in Senato la maggioranza sarà a rischio per il disimpegno dei verdiniani, c’è già chi giura fin d’ora che saranno le assenze strategiche nei banchi di Forza Italia a sostenere l’esecutivo. Ma occorre chiarezza, non si può campare sui “si dice” e “tutti sanno”: stiamo attraversando un periodo delicatissimo, come testimoniano i numeri che vi ho snocciolato prima. Occorre puntellare le banche, ma occorre anche dare risposte a quelle famiglie, altrimenti non si uscirà mai dalla spirale depressiva in cui è finito il Paese.
E anche sul fronte occupazionale e della produzione, la narrativa miracolistca del Jobs Act, di fatto legata unicamente a decontribuzione una tantum e voucher, ieri ha trovato un’altra smentita nel dato relativo alla produzione industriale nel nostro Paese: stando a rilevazioni Istat, a ottobre 2016 l’indice destagionalizzato ha segnato una variazione nulla rispetto al mese precedente. Serve una cura shock, ma le cure shock possono farle solo i governi con solide maggioranze e agende condivise, quantomeno su pochi punti qualificanti: ad esempio, un salutare intervento sul cuneo fiscale e se l’Ue ha qualcosa da eccepire, lasciamo eccepire e pensiamo all’Italia. Navigare a vista tra i marosi dei ricatti è il modo migliore per condannare a morte questo Paese.
Sono infatti troppi i fianchi scoperti, prima fra tutti il sistema bancario, nei confronti del quale serve un intervento serio del Tesoro, anche mettendo i vertici di Mps in un angolo, se si vorrà continuare con l’avventurismo sponsorizzato da Oltreoceano, non so quanto disinteressatamente e in linea con le attese di mercato. Dall’altro giorno, inoltre, Mediaset è sotto attacco ostile da parte dei francesi di Vivendi, saliti al 3% del capitale e con l’intenzione di aumentare la loro detenzione fino al 10-20%: un caso di scalata bello e buono, oltretutto preparato a tavolino quando il titolo è divenuto appetibile, proprio a causa dello strappo tra i due soggetti sul dossier Mediaset Premium. A parti invertite, il governo francese – socialista o gaullista, poco cambia – avrebbe già fatto sentire la sua voce, scomodando la strategicità nazionale dell’azienda ed erigendo muri difensivi e lo stesso accadrebbe in Germania, visto che non più tardi di due mesi fa il governo Merkel ha varato una norma contro le acquisizioni estere di rami industriali ritenuti sensibili per l’interesse e la sicurezza nazionale. Noi, invece, troppo presi in beghe di partito e referendum da personalizzare, salvo pentirsene, abbiamo prima svenduto Telecom e ora assistiamo al tentativo di scalata su Mediaset, quasi compiaciuti, perché se Berlusconi è in difficoltà, il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini vede almeno la metà dei suoi abitanti giubilare, non capendo che siamo un Paese solo e siamo quindi tutti sulla stessa barca. Pensate che Vivendi lascerà tutto com’è, anche a livello occupazionale, se riuscirà a scalare Mediaset?
E proprio ieri Banca Akros ha calcolato che un’offerta finale costerebbe a Vivendi poco meno di 2,5 miliardi di euro, tanto che per gli analisti di Mediobanca Securities la mossa del colosso francese “è da considerarsi aggressiva e conferma ciò che dicemmo già in passato, ovvero che l’interesse di Vivendi non è solo per il ramo pay ma per l’intera Mediaset”. Se qualcuno ha a cuore il bene comune del Paese, batta un colpo. È il momento giusto per farlo, ancora pochi mesi di guerre e immobilismo e potrebbe essere tardi.