Di notte tutti i gatti sembrano grigi, ma in realtà non lo sono: nel giorno del doloroso risveglio di Unicredit, con un piano industriale che dovrebbe restituire stabilità alla banca, va riconosciuto l’onore delle armi a tutti coloro grazie ai quali quella banca può presentarsi ai mercati internazionali con queste prospettive impegnative e per certi versi dolorose – tagliare un quinto dei dipendenti lo è -, ma capaci di suscitare il consenso di investitori al quale si chiedono nuovi capitali per 13 miliardi di euro, il 60% dei 18 di capitalizzazione borsistica.
È qui la differenza brutale tra l’aumento di capitale proposto ieri da Jean-Pierre Mustier, il fresco amministratore delegato di Unicredit, francese di nazionalità ma si spera non di regìa, e garantito da dieci merchant bank, e accolto molto bene dalla Borsa, e quello da 5 miliardi di euro che il Monte dei Paschi di Siena non riesce ancora a “quagliare”: che la capitalizzazione del Monte è inferiore a quei 5 miliardi.
L’onore delle armi, su Unicredit, va riconosciuto anche a coloro che negli anni l’hanno esposta a mille ingiurie – basti pensare all’incauto acquisto, senza due-diligence, della Capitalia di Cesare Geronzi, con annesso cadeau della presidenza di Mediobanca per il medesimo, o all’altro incauto acquisto della tedesca Hypovereinsbank, due operazioni che hanno impiombato gli attivi del gruppo con crediti di pessima qualità; eppure Alessandro Profumo, che le firmò entrambe, aveva in mente una visione strategica lucida e innovativa, che è la stessa che oggi tutela la banca sui mercati e semmai la espone a una scalata, ma non al bail-in.
Lui, come diversamente il successore Ghizzoni, che ha governato meno tempo, hanno comunque almeno in parte protetto Unicredit dalle scorrerie della politica, come non è accaduto a Siena, dove il Monte è stato usato come uno straccio da cucina. E comunque se il vecchio Credito Italiano, “banca di interesse nazionale” vent’anni fa ancora controllata dall’Iri, è oggi una banca sistemica europea lo si deve a chi quella strategia ha pensato e perseguito, dallo storico presidente Lucio Rondelli – che scelse e lanciò Profumo – ad altri personaggi di valore, da Carlo Salvatori all’attuale Giuseppe Vita, che al vertice della banca hanno se non altro bilanciato il consociativismo subito o erroneamente cercato con i vari Montezemolo, Ligresti, Palenzona.
Già: Fabrizio Palenzona. Rappresentante e simbolo delle inutili concessioni alle miserie del nostro sistema, come l’affidarsi alle oggi impotenti Fondazioni bancarie, per trovarvi un’irrealistica ancora di stabilità, come quella di Verona, guidata da personaggi di levatura provinciale sia come profilo imprenditoriale che come contiguità politiche, o quella di Torino. O, appunto, Montezemolo, sponsor in Unicredito dei soci arabi, scottati ormai anche loro da tanti affari discutibili propostigli in Italia dai loro interessati consulenti. O ancora il vecchio ingegnere di Paternò, protagonista di un clamoroso buco al “suo” gruppo Sai Fondiaria, e di un deprimente, senile declino sforacchiato dagli strascichi giudiziari contro di lui e i suoi figli.
Ma resta una complessiva solidità strategica, in Unicredit, che non a caso i mercati hanno premiato. Resta la possibilità di giocare a tutto campo su più mercati, nonostante l’addio alla Polonia. E resta, va pur detto, il beau geste dell’amministratore delegato Mustier di tagliarsi lo stipendio, non proprio così ovvio e banale di questi tempi.
Quel che non va dimenticato è che le banche italiane sono su una graticola storica dalla quale nessuna nazione sta salvandosi e che altrove è stata “raffreddata” da copiose iniezioni di denaro pubblico. Oltre a scontare il boom delle sofferenze, cioè dei mancati rimborsi dei prestiti – conseguenze dirette della crisi economica esplosa dopo il 2008 -, le nostre banche hanno anche sofferto la carenza di capitali da parte dei loro soci storici di riferimento. Appunto le fondazioni, e gli “impreditorucoli” che pensavano di appuntarsi sul petto, con l’1% di una grande banca e un posto in consiglio, una specie di distintivo araldico. Macché: ci hanno perso soldi, e guai a toccarli nelle tasche. In alcune banche, per esempio quelle venete, hanno spesso ripreso con una mano i soldi che avevano investito con l’altra. In Unicredit lo scherzetto è forse in parte riuscito a Ligresti, ma la gestione della banca è sempre stata più sana altrove e ha circoscritto il virus.
Le nostre banche soffrono dunque per una crisi di modello di business che da una parte patisce la dissoluzione del vecchio “margine di interesse”, reso irrisorio dal livello artificialmente basso dei tassi, e dall’altra della struttura inutilmente costosa della rete fisica: le filiali sono vuote, i dolorosi tagli all’organico che Unicredit ha già fatto e ora aggrava sono ancora carezze rispetto agli esuberi, pari nel sistema – come gli scappò di dire perfino a Matteo Renzi – alla metà degli attuali organici. Insomma, quello del credito è un settore industrialmente decotto, dove possono salvarsi solo le aziende migliori e il piano Unicredit, nonostante tutto, dimostra che l’istituto può ancora ambire a restare nel novero dei migliori.
E la politica? Continua a essere “non pervenuta”. Non più tardi di ieri l’ex-ministro dell’Economia Giulio Tremonti, nel deprecare la formula del bail-in, ricordava in un’intervista a Giovanni Minoli di essere stato tra i pochi a votare contro il recepimento nelle leggi italiane di quella disennata direttiva europea; e sottolineava le mancanze del governo Renzi che, gestendo come ha fatto prima la crisi delle quattro banche mandate in risoluzione e poi quella del Monte, ha accreditato agli occhi del mondo una debolezza profonda del sistema creditizio italiano più acuta del reale.
La responsabilità attuale più grave è però proprio quella di aver affidato il Montepaschi a un tentativo disperato di salvataggio a opera di due advisor per diverse ragioni poco plausibili, sul mercato, tanto da non aver finora riscosso alcun consenso. E del resto: Jp Morgan, che guida il tentativo con l’obiettivo di intascare una mostruosa provvigione del 10% dell’importo cercato, che credibilità può avere nell’offrire a terzi un investimento che si guarda bene dal sottoscrivere essa stessa (pur potendolo fare, tra i tanti investimenti promossi dal gruppo)? E Mediobanca, coinvolta fin dalle origini nel disastro Antonveneta come co-advisor, mai avrebbe dovuto essere richiamata sul luogo del misfatto.
Fa effetto ma rincuora oggi leggere un economista qualificato come Francesco Giavazzi – oltretutto genero di un grande banchiere come Francesco Cingano, che fu per molti presidente di Mediobanca – prendere le distanze dalla conduzione della crisi senese fatta dal governo Renzi coinvolgendo appunto Jp Morgan e Piazzetta Cuccia (“Possiamo sapere a quanto ammontano le parcelle finora pagare alle due banche d’affari?”, scrive oggi sul Corriere).
Oggi, al netto delle pochezze della politica e dei politici, l’interesse del Paese è consolidare il sistema bancario evitando, se possibile, che il prezzo della stabilità sia il suo passaggio sotto bandiere straniere. Come diceva Tremonti, che Unicredit debba vendere la sua società di gestione del risparmio Pioneer per fare cassa (4 miliardi) a un colosso straniero come la francese Amundi (gruppo Credit Agricole, che già in Italia controlla Cariparma, Carispezia e Friuladria) è tutt’altro che una prova di “fiducia nell’Italia”, come decanterebbe lo stolto storytelling renziano. Significa ben altro, significa che 200 miliardi di euro di risparmi italiani finiranno, sia pur gradatamente, con l’essere maggiormente orientati verso investimenti all’estero che in Italia. Creeranno ricchezza altrove, lavoro altrove. E che se oggi l’incidenza di titoli di Stato italiani nei portafogli di quelle gestione è pari a una percentuale “x”, domani difficilmente sarà superiore a essa, anzi. E così via.
L’Italia, agli occhi dei mercati e degli stessi partner europei, è un succoso cosciotto di ricchezza ancora tutto da spolpare: ricordiamocelo. La solidarietà internazionale è una fanfaluca, non esiste, nel mondo globalizzato di veramente globale c’è solo la voglia di supremazia. Unicredit e il suo piano industriale sono in questo senso e per quel gruppo una sorta di ultima spiaggia. Ma le premesse affinché da questa spiaggia l’istituto si riprenda e riparta bene ci sono, e sono credibili.Volesse il cielo che anche per il Montepaschi si trovasse una soluzione paragonabile, sia pure con soldi pubblici, visto che il ricorso ad essi appare sempre più inevitabile. E nonostante il patronage che Renzi conserva sul neo premier Gentiloni.