Il guaio è che non dipende dalla malattia. Sull’ultima desolante sparata di Bossi contro Monti non incide il precario e manifesto stato psicofisico del personaggio: l’uscita appartiene a una lunghissima sequenza, che ha preso di mira l’universo mondo, incluso il Papa. E chi ne ha fatto le spese più di ogni altro (tra l’altro tornando oggi nel mirino) è l’ormai ex amico del cuore Berlusconi. Solo il ritiro da parte di quest’ultimo della slavina di querele, in cambio del patto di ferro elettorale, ha evitato all’Umberto furioso grane giudiziarie anche pesanti per le pubbliche esternazioni a colpi di Berluskàz, Berluskaiser, mafioso di Arcore e via insultando a bocca libera.
Proprio la lunga e squallida consuetudine del “senatùr” con insulti e minacce consente di individuare peraltro una costante precisa: Bossi alza i toni quando le cose gli vanno male. E che male gli stiano andando, è innegabile. Ha appena finito di minacciare l’uscita dal governo della Lombardìa “perché lì ogni giorno uno del Pdl finisce sotto inchiesta”, e si ritrova con uno dei suoi uomini di fiducia, Davide Boni, indagato per corruzione; il presidente del Consiglio regionale, poi, mica l’usciere.
Dal primo giorno spara a palle incatenate contro Monti, e tutti i sondaggi lo danno in discesa di consensi rispetto all’ultimo riscontro elettorale dell’11 per cento. Riesce a mettere in fila, da Patelli in poi, un tesoriere peggio dell’altro, sollevando pesanti interrogativi sui conti del partito anche tra dirigenti e militanti. Tenta maldestramente di pilotare una successione a se stesso allevando improbabili trote casalinghe. Se Berlusconi si mette d’accordo con Pd e Terzo Polo, gli rifila una legge elettorale tale da togliergli il vantaggio competitivo di cui finora ha goduto. Soprattutto, dopo quasi cinque lustri di monarchia assoluta, ha ben poco da offrire in termini di fatti concreti a chi l’ha votato. E allora si rifugia nell’iperbole delle parole.
C’è solo da sperare che, una buona volta, qualcuno della vasta platea di militanti, che per la Lega si è dannata l’anima, si faccia largo tra la sparuta, ma ben piazzata schiera di cortigiani che giustificano ogni gesto del Capo, proclamandone l’infallibilità. E si dissoci da comportamenti tipo quelli della “Pravdania”, come viene definito da molti degli stessi leghisti l’organo di partito; peraltro ignorato dalla stragrande maggioranza dell’esercito del Carroccio, generali inclusi (vedi le sparute vendite): il quale dietro ordine uscito dalla porta accanto di via Bellerio ha derubricato la minaccia a Monti come una “decisa metafora politica”. Qualcosa in questo senso forse si muove, come testimonia il documento reso pubblico ieri in Veneto da un leghista della prima ora come Bepi Covre, e da uno emergente come Marzio Favero.
Dove si dice chiaro e tondo, tra l’altro, che “è onesto e doveroso tirare un bilancio”; che molti amministratori locali e militanti chiedono “una rivoluzione culturale e una svolta che sia anche linguistica, poiché le parole decidono il modo di essere del nostro mondo”; e che “slogan che andavano bene nella fase giovanile della Lega oggi risuonano stucchevoli e datati”. E si condannano senza mezzi termini, bollandoli come ridicoli, “gli improperi maleducati di alcuni nostri parlamentari, le rivendicazioni neo-nazionalistiche in chiave piccina, le affermazioni xenofobe”.
Si condividano o no le sue idee, la Lega è stata uno dei pochi fattori di novità della stantìa politica italiana, e ne ha condizionato l’agenda. Ma perché ha trasmesso a una parte rilevante dell’elettorato la speranza che fosse capace di modernizzare il Paese attraverso riforme strategiche. Non trattandolo come un’osteria in cui tra un improperio, un insulto e una gradassata, alla fine sul tavolo resta solo un bicchiere vuoto. E un conto comunque da pagare.