Mario Monti “convoca” Sergio Marchionne per sabato pomeriggio a Palazzo Chigi. Bonanni vuole che sia Marchionne a “convocare” i sindacati. In Canada, al contrario, il sindacato dell’auto non vuole essere convocato da “super Sergio”, perché “meno malleabile” tra i manager dei grandi gruppi. Così lo Uaw ha firmato un accordo con la Ford. Anche se poi, alla fine, segue la matrice dell’intesa raggiunta nell’autunno scorso a Detroit con la Chrysler. Barack Obama, in campagna elettorale, non smette di far visita alle fabbriche del Michigan per rendere omaggio al “salvatore”.
Incontri, trattative, sindacati, governi. Sarà un riflesso del secolo scorso, ma quella delle quattro ruote resta ancora “l’industria delle industrie”, con una valenza sociale e politica che nessun’altra ha. Un telefonino come l’ultimo iPhone può aumentare di mezzo punto il Pil americano, non c’è modello automobilistico che arrivi a tanto. Al contrario, nessun gadget elettronico può diventare un’icona dei rapporti tra lavoro e capitale nella distribuzione del valore aggiunto.
Cosa può fare Monti? Poco, molto poco. Non esiste solo un problema di sovranità espropriata dai mercati finanziari. Esiste anche una sovranità espropriata dai mercati industriali. Nel momento in cui il valore aggiunto si forma (e si divide) sull’arena mondiale, una risposta nazionale non ha più molto senso. Lo dimostra del resto la Francia rimasta sovranista nella sua sovrastruttura ideologica, ma costretta dalla legge bronzea della struttura ad adeguarsi alla realtà: la Peugeot taglia e chiude un impianto, la Renault finora è salvata da Nissan che vende bene in Asia. Persino il colosso Volkswagen, che finora ha vinto la “guerra dell’auto”, deve registrare una caduta degli utili in Europa perché l’intero mercato del vecchio continente è saturo e tutti ne debbono prendere atto. A cominciare dai più deboli (oggi Fiat, Opel e Peugeot) per finire ai più forti. Gli eredi Agnelli e il loro manager, non hanno nessun bazooka a disposizione.
Dunque, anziché chiedersi cosa possono fare Monti o Marchionne, meglio chiedersi cosa vogliono. Il Presidente del consiglio vuole che il capo della Fiat non provochi uno stato di tensione sociale permanente che metterebbe in seria difficoltà il governo in questi mesi delicati in cui si gioca il futuro elettorale del Paese, ma anche quello finanziario perché il sollievo di Draghi è temporaneo e se l’Italia avesse davvero bisogno degli aiuti, la Bce non farebbe certo sconti: Angela Merkel l’ha già cantata chiara urbi et orbi. Per il resto, Monti ha già detto che non spetta ai governi indicare alle imprese dove e quanto investire.
Marchionne vuole preparare il terreno per un nuovo ridimensionamento. Può farlo in modo soft (con sostegni sociali forniti dal Governo in modo più o meno abbondante) oppure senza ammortizzatori. Ma non ha scelta. Per la logica del mercato, come abbiamo detto, e perché ha perso la partita europea nel momento in cui ha mancato la conquista della Opel. Con il senno di poi, i tedeschi si mangiamo le mani, ma General Motors ha preferito perdere soldi che cedere una fetta di mercato. La Fiat, non potendo acquisire nuove quote, preferisce non perdere quattrini. Dura lex sed lex.
Il manager dal maglioncino nero non eccede certo in bon ton. Non lo ha mai fatto, anzi si vanta proprio del contrario. Nel 2009, quando salvò la Fiat grazie a Obama, il capo del sindacato rifiutò di stringere le mani al rappresentante della Fiat dicendogli: “Voi state cancellando un secolo di contrattazione in America”. Gli operai ridussero i salari e rinunciarono agli scioperi, ma non persero il posto di lavoro.
Marchionne ha imbrogliato tutti con Fabbrica Italia? Probabilmente no, nella primavera del 2010; certo, lo ha fatto quando ha promesso investimenti in cambio di nuove regole del lavoro in fabbrica. Era già chiaro allora come stavano andando le cose. Marchionne non ha investito in nuovi modelli? “Non li avrei venduti”, dichiara l’ad Fiat. Se li avesse, sarebbe in grado di cogliere la ripresa, replicano i sindacati e i suoi avversari anche sulla stampa. Ma il fatto è che Marchionne ritiene il mercato europeo in contrazione strutturale di lungo periodo, ben oltre lo stesso 2014 che ha evocato nell’intervista a la Repubblica.
Dunque, siamo intrappolati da un rio destino? No, c’è sempre la possibilità di scegliere. Ma scegliere cosa? Apriamo le frontiere a nuovi produttori, propone Susanna Camusso. Una buona idea. Oggi come oggi potrebbero arrivare gli asiatici. In fondo, la Volvo è andata ai cinesi, i sindacati svedesi sono contenti e il marchio è rifiorito senza rimettere in discussione i diritti dei lavoratori. L’Italia è attraente come la Svezia? No, non lo è. Ecco il problema. E qui tutti possono fare molto, dai sindacati al governo alle imprese.
È aperto adesso un altro “tavolo”, quello sulla produttività, che implica una riforma dell’intero sistema contrattuale muovendosi verso uno schema scandinavo (o tedesco) che privilegia l’impresa. Monti ha intimato di raggiungere un accordo entro la fine del prossimo mese. Vedremo. Certo, le parti in causa non sembrano consapevoli della posta in gioco, non lo sono i sindacati a cominciare dalla Cgil, non lo è la Confindustria. Le Parti sociali chiedono aiuti al Governo, ma hanno capito che non c’è trippa per gatti?
La Fiat non abbandonerà l’Italia, perché non intende regalare l’intero mercato a tedeschi, coreani, giapponesi. Ma in effetti l’ha già lasciata: oggi produce nella madrepatria una piccola quota dell’intero gruppo che, Chrysler compresa, arriva a 4 milioni di vetture. Chiuderà almeno un impianto perché la sua quota sul mercato interno è destinata a ridursi ancora. Del resto, stabilimenti di montaggio per auto di massa qui non hanno futuro. Il vero errore, semmai, è di aver depotenziato “il cervello produttivo”. Il trasferimento di tecnologie alla Chrysler è stato molto intenso e si prefigura un vero e proprio scambio ineguale. Su questo punto il governo potrebbe impuntarsi, perché ha a che fare con l’indotto, con la scuola, con la ricerca, insomma con questioni di interesse collettivo e un pezzo importante del prodotto lordo italiano.
Proprio partendo da questo aspetto rilevante per il futuro, Monti potrebbe discutere come la Fiat partecipa alla metamorfosi delle economie avanzate le quali non stanno affatto abbandonando l’industria, ma si stanno specializzando nella fascia alta, quella a più elevati contenuti tecnologici, mentre la produzione di massa nei paesi ricchi declina inesorabilmente, lasciando il posto alla manifattura su misura, come sottolinea Peter Marsh nel suo libro sulla nuova rivoluzione industriale.
È un processo nel quale anche l’industria dell’auto è immersa, anche se non ne è più il motore. In questa grande trasformazione l’Italia, patria del “taylor made”, potrebbe ritrovare una nuova giovinezza. Qui sì il governo ha un compito importante. Non per creare nuovi dannosi piani di settore, ma per favorire una più efficiente e moderna aggregazione delle imprese e dei fattori produttivi. È questa la sfida. Tamponato lo spread finanziario, adesso bisogna aggredire lo spread produttivo.