«Degna di Aspettando Godot». No, non stiamo parlando di una nuova pubblicazione che si è guadagnata questa più che brillante recensione, ma della politica economica del governo tedesco basata sull’attesa di ripresa dell’export, così definita non da un ultra-liberista selvaggio, ma da Peter Bofinger, professore di economia all’università di Wurzburg.
«Attendiamo una crescita dell’export e che le dinamiche riprendano, ma dovremo essere molto fortunati perché il governo non ha affatto un piano B», ha dichiarato insolente al Financial Times. D’altronde, con la bomba delle banche pronta a esplodere, la Germania ha poco da stare allegra. E, ad essere sinceri fino in fondo, puntare sull’export quando la principale notizia della settimana è stata l’apertura di una trattativa formale tra la Hapag-Lloyd, principale compagnia di container tedesca e il gruppo turistico Hui da un lato e il governo di Amburgo dall’altro, per garantire una linea di credito da 300 milioni di euro che eviti al gruppo il fallimento – a fronte di una cessione di quote nella società di gestione del porto anseatico – la dice lunga sulle prospettive di ripresa dell’export tedesco.
Ma è così ovunque, anche a Singapore i container restano fermi in porto e noleggiarne uno costa il 65-70% in meno rispetto a un anno e mezzo fa. Inoltre, sempre in Germania, sta avvicinandosi il d-day della seconda, grande bolla bancaria visto che l’altro giorno Deutsche Bank ha perso l’11,5% in Borsa sui timori, confermati dall’ad Josef Ackermann, che la politica suicida dell’istituto che ha detto “no” prima a una ricapitalizzazione e poi all’ipotesi bad bank proposta stia per consegnare dati devastanti riguardo i cosiddetti “bad loans”, i cattivi prestiti che l’istituto ha aumentato esponenzialmente – si parla del 50% in sei mesi – in ossequio alla richiesta governativa di facilitare il credito e così evitare la semi-nazionalizzazione.
Insomma, ha fatto una mossa per evitare un proiettile e se n’è preso un altro nella schiena. Ecco i green shots che qualcuno intravedeva nei rimbalzi da gatto morto delle Borse nelle ultime settimane. Ma tornando ad Est, ci sono altre ragioni per cui avere ben poco da festeggiare. La Cina, motore della ripresa globale secondo qualcuno, ha visto l’altro giorno scendere in campo un’allarmata Banca centrale affinché gli istituti controllino che il credito che hanno offerto in eccesso, qualcosa come 1.080 miliardi di dollari nel primo semestre dell’anno, vada verso l’economia reale e non a creare bolle in asset nei mercati dell’equity e del real estate: troppo tardi, le bolle si sono già formate e purtroppo non ci metteranno molto a gonfiarsi a dismisura.
Lo stesso discorso vale per Corea del Sud e Vietnam: insomma, dopo l’ondata Usa e quella europea prepariamoci a una bella bolla pronta ad esplodere anche nel Far East e dintorni. Entro il 2009 l’aumento dei prestiti concessi rispetto all’anno precedente in Cina ammonterà al 40%, una scelta rischiosa quando l’export è fermo, la situazione interna tutt’altro che stabile e le riserve in continua crescita per mantenere in piedi il carrozzone miliardario del debito Usa, ormai indicizzato in yuan se vogliamo essere sinceri.
Non sta meglio l’India, altro motore del commercio e della crescita mondiale, visto che la banca centrale ha avvertito il governo che l’inflazione potrà salire a breve al 5% a causa della politica di spesa: il debito fiscale è già cresciuto al 6,8% del Pil. E sempre restando a Est, ma avvicinandosi a noi e tornando in area euro, ecco che scopriamo come il Pil della Lituania, nel secondo trimestre di quest’anno, sia crollato del 22,4%, il dato peggiore dalla secessione del paese nel 1990 e molto sotto alle stesse previsioni compiute da Reuters che parlavano di una caduta del 16,7%. Una dinamo pronta ad andare a colpire vicini già in crisi come Estonia e Lettonia, quest’ultima alle prese con una contrazione della crescita del 18% nonostante il prestito d’emergenza da 7,5 miliardi di euro concordatole lo scorso dicembre dal Fondo Monetario Internazionale.
Ora pare proprio giunto il momento anche per la Lituania di bussare alle porte del Fmi, dopo averle sdegnosamente sbattute qualche tempo fa, convinta com’era di potercela fare con le proprie tremebonde gambe. I dati parlano chiaro: la contrazione della crescita in Estonia è del 15,6%, mentre in Lituania del 10,9%. E, tanto per far capire quale sia l’entità del rischio che l’Ue sta correndo non intervenendo in maniera drastica sul mercato dell’Est, è sempre di ieri la notizia che l’anche l’Ucraina ha ottenuto un prestito d’emergenza dal Fondo Monetario pari a 3,3 miliardi di euro.
Va bene che l’ultimo G20 ha dato carta bianca al Fmi per stampare e pompare quanta più liquidità immaginaria per evitare collassi, ma la misura, oramai, appare davvero colma. Lo stato dell’arte è questo attorno e accanto a noi: il dato sui beni durevoli Usa che ieri ha fatto partire in negativo Wall Street ci parla la lingua di una crisi che è ben lunghi dall’essere terminata. Questo nonostante il Wall Street Journal ci informi che a Washington qualche genio ha addirittura perso tre mesi per stilare un report – di prossima pubblicazione – che dimostri come il recente aumento del prezzo del petrolio sia dovuto alla speculazione, alcuna. Viene da chiedersi da dove li tirino fuori certi personaggi, gente che nel mezzo della tempesta scopre l’oscuro mondo delle contrattazioni over-the-counter, dei pink sheets, degli squeezes e dei corners.
Questa è la gente che ci governa e decide per noi: io sarò pessimista ma se qualcuno di voi mi spiega quali ragioni di ottimismo ci siano con manovratori del genere al comando, gli sarò davvero grato. Non va cambiato il liberismo, vanno cambiati i leader: politici e finanziari. Ma finché il mondo griderà al miracolo e alla magnifiche sorti progressive per l’elezione di un incompetente totale come Barack Obama, legato mani e piedi alle lobbies che nelle crisi ci sguazzano e cadono sempre in piedi, c’e’ ben poca speranza. Sto per arrivare a rimpiangere Alan Greenspan, pessimo segnale.