Una piccola folla di ricorsi incombe sul referendum costituzionale. E’ attesa la sentenza del Tar Lazio sul ricorso presentato da M5s e Sinistra Italiana contro il decreto di indizione del referendum da parte del presidente della Repubblica. Ma l’iniziativa dei ricorrenti assistiti dai legali Giuseppe Bozzi ed Enzo Palumbo non è l’unica ad essere sul tavolo dei tribunali italiani. Nei giorni scorsi si è molto parlato del ricorso presentato da Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, contro un quesito “così eterogeneo che non rispetta la libertà di voto degli elettori” (Corriere della Sera, 12 ottobre).
Pochi sanno che il ricorso di Onida ha lo stesso oggetto dell’atto di citazione a firma Claudio e Ilaria Tani, Aldo Bozzi ed Emilio Zecca di cui si è parlato più volte su queste pagine, depositato al Tribunale di Milano il 16 giugno scorso. Onida ha fatto ricorso al Tar Lazio e al Tribunale di Milano. Nel primo foro ha impugnato il decreto di indizione del referendum: con deboli prospettive, perché il decreto di indizione è un atto politico e gli atti politici sono sottratti al sindacato del giudice amministrativo. A Milano invece Onida ha presentato una replica, con qualche variante, della citazione di Tani. E in questo caso la questione è molto più seria, come hanno confermato le inattese, sorprendenti dichiarazioni dell’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky, schierato sul fronte del No al referendum, che venerdì scorso all’Huffington Post ha parlato di “ottimi argomenti per sostenere la tesi di Onida” e di possibile rinvio del voto referendario. Una bomba, per il governo Renzi. Una bomba oppure un’uscita di sicurezza, nel caso che l’ombra di una vittoria del No dovesse guadagnare nuovo terreno, allungandosi fino al fatidico 4 dicembre.
Molti le coincidenze e gli interrogativi. Ne abbiamo parlato con Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica.
Professore, per Onida “l’elettore è leso nella sua libertà di voto per non potersi esprimere in modo diverso sui diversi aspetti eterogenei della riforma”. Lo ha detto il costituzionalista al Corriere mercoledì scorso, dopo aver presentato (il giorno prima) il suo ricorso.
Tecnicamente la questione non è nuova. Solo quando nel 2006 Berlusconi ha tentato, senza esito, di fare una riforma omnibus come quella che sta facendo adesso Renzi si è sollevata la tesi dell’eterogeneità del quesito referendario. Che è la stessa che sta a fondamento dell’atto di citazione di Tani.
Fino ad allora?
Fino ad allora tutte le revisioni della nostra storia costituzionale erano state revisioni limitate e puntuali, su oggetti specifici. Persino l’altra riforma-carrozzone della nostra storia costituzionale, la vituperata riforma del 2001 sul Titolo V, aveva una sua omogeneità. E c’era una ragione precisa.
La salvaguardia del diritto dell’elettore.
Precisamente. Ed è per questo che un eventuale rinvio della questione alla Corte costituzionale ha delle basi molto serie. Oggi abbiamo a che fare con un referendum costituzionale, ma i referendum — siano essi costituzionali o abrogativi — dal punto di vista strutturale sono tutti uguali. Ogni referendum si deve risolvere in una domanda a cui l’elettore deve poter rispondere liberamente con un sì o con un no. Tutto il resto, e cioè l’effetto formale, che sia l’abrogazione di una legge o l’entrata in vigore di una riforma, è secondario e dipende da una scelta del legislatore che, di volta in volta, attribuisce al voto effetti diversi. Ma la libertà dell’elettore è la base di ogni referendum, altrimenti si parla d’altro.
E questo chi l’ha detto?
Non io, ma la Corte costituzionale. Nel 1978 i radicali avevano proposto un quesito referendario unico che prevedeva l’abrogazione di novantasette articoli del codice penale. La Corte disse che di fronte alla modifica di 97 articoli del codice c’era un problema di eterogeneità del quesito: non ci possono essere quesiti a contenuto multiplo, perché costringerebbero l’elettore a uniformare sul sì o sul no diverse opzioni possibili, o, in altri termini, a disvolere ciò che vuole — o viceversa.
Cosa significa questo oggi?
E’ molto semplice. Le chiedo: che nesso c’è fra l’abolizione del Cnel e la riforma del titolo V? E tra la riforma della decretazione d’urgenza e quella del sistema bicamerale? E tra l’abolizione delle Provincie e la riforma del procedimento legislativo? Perché dovrei prendere tutto assieme e votare sì o no in blocco?
In altri termini, io potrei essere per la soppressione del Cnel, ma non volere affatto riformare il bicameralismo; o voler cambiare il titolo V ma eleggere direttamente i senatori.
Appunto. La questione si ripropone nel 1987, con il referendum dei radicali sull’articolo 842 del codice civile: il primo comma riguardava la caccia, il secondo la pesca. I radicali, mirando all’abolizione di tutte le attività venatorie sul territorio, volevano abrogare l’articolo intero ma la Corte non ammise il referendum perché era a quesito multiplo e andava a coartare la libertà dell’elettore. Oggi il governo pretende dagli elettori un sì o un no all’intero pacchetto. Prendere o lasciare: è questa, come sappiamo, la logica del referendum renziano.
Se questi sono i problemi che incombono sul quesito, vien difficile credere che al governo non lo sapessero.
Sono d’accordo con lei. Ma queste sono considerazioni politiche e non tecniche, anche se queste ultime sono spesso e volentieri connesse alle prime. Diciamo che c’è stata fretta di andare avanti e lasciare da parte i dettagli di ciò che si faceva.
Onida l’11 ottobre scorso ha presentato un suo atto di citazione, coincidente nel merito e, forse, anche nella forma con quello già pendente davanti al Tribunale di Milano. Perché, se l’obiettivo comune è quello di tutelare il diritto di voto?
Anche questa è, probabilmente, una questione politica. E’ così politica che Gustavo Zagrebelsky si è premurato di dire venerdì che “esistono ottimi argomenti per sostenere la tesi di Onida”. Che, aggiungo io, è la stessa di Tani, pendente da mesi davanti allo stesso tribunale. Ma non solo. Zagrebelsky vede nientemeno che “il rischio di un rinvio del voto sul referendum” e aggiunge che, conoscendo i tempi della Corte, se la questione venisse sollevata dal Tribunale di Milano si andrebbe a decisione a primavera.
Non può svolgersi un referendum se la Consulta deve giudicare sulla salvaguardia della libertà dell’elettore. Ma chi ha la facoltà di sospendere un referendum incipiente?
Questo è un punto dirimente. Onida nella sua citazione al Tribunale di Milano e nel ricorso al Tar del Lazio chiede che la Corte costituzionale sospenda il referendum. Ma questa eventualità è senza precedenti e, al momento, non sta scritta da nessuna parte. E’ vero che ormai la Corte, negli ultimi tempi, ci ha abituato a soluzioni, diciamo così, creative, facendosi in cucina le categorie processuali che le servono. Ma questo sarebbe clamoroso.
Allora il nodo è ancora politico.
Certamente. Si potrebbe azzardare una prima conclusione: che l’atto di citazione di Onida, sostanzialmente, e forse anche formalmente, identico a quello di Tani, abbia un valore — e uno scopo — che il primo non aveva.
Insomma, Onida offrirebbe il destro al governo per rinviare il referendum. Non aveva senso a luglio, quando Renzi si aspettava una netta vittoria del Sì; ma ha senso adesso, quando la vittoria è incerta e molti fattori lasciano ancora presagire un’affermazione del No.
Io mi limito a osservare due cose. La prima è che l’iniziativa di Onida arriva dopo — dopo, non prima — che la Consulta ha spostato la discussione sull’Italicum a dopo il referendum. La seconda è che il ricorso di Onida è stato ripreso da tutti i giornali. E questo gli dà inevitabilmente una rilevanza tutta politica, poco importa che questo fosse o meno nelle intenzioni del proponente; anzi, sono certo che non lo è affatto. Può andare avanti con le parole di Zagrebelsky per favore?
Il professore ha detto di temere che iniziative del genere “venissero catalogate come le solite iniziative da giuristi formalisti che guardano ad aspetti particolari, astratti dal nucleo vero delle questioni”.
Lo dice Zagrebelsky: ho l’impressione che il nucleo vero dell’azione sia tutto politico. Onida, con il suo ricorso al Tar Lazio e con la sua citazione al Tribunale di Milano, ha di fatto il controllo della questione di costituzionalità del quesito referendario; compreso, eventualmente, il potere di rinunciarvi.
Cosa accadrebbe se la Consulta venisse investita della questione?
Renzi resterebbe al governo, in attesa della sentenza della Consulta sulla costituzionalità del quesito; nel frattempo la Consulta deciderebbe sull’Italicum; ci sarebbe il tempo per fare una legge elettorale e poi, eventualmente, tenere il referendum costituzionale. Basta che la Corte non abbia fretta di pronunciarsi, congelando la questione sulla legittimità del quesito a contenuto multiplo.
Secondo alcuni rumours dello scorso settembre il giudice Zanon, relatore sull’Italicum, aveva già convinto la maggioranza dei giudici costituzionali ad annullarlo. Cosa pensa di questa ipotesi?
Nessuno può sapere cosa intende fare la Corte costituzionale. E sulla stampa sono circolate soltanto illazioni, che ho letto anch’io, ma che rischiano di rivelarsi infondate. Si può però osservare che, se questa ipotesi fosse vera, sarebbe perfettamente coerente con il rinvio dell’esame di costituzionalità previsto per il 4 ottobre scorso a dopo il referendum. Intanto, se l’Italicum è spacciato, il presidente del Consiglio può facilmente offrirlo come moneta di scambio alla minoranza riottosa del suo partito. Una moneta bucata, perché l’Italicum dovrebbe essere comunque cambiato; ma buona, nel frattempo, per comprare il Sì al referendum ed avere margine di contrattazione.
Sempre che il Sì sia dato vincente.
Appunto. Se così non è, occorre tempo per correre ai ripari. E la soluzione migliore, come abbiamo visto, è un buon ricorso su una questione già proposta, ma, fino ad oggi, ritenuta marginale, che però oggi può offrire il destro per un rinvio. Se devo essere onesto ho l’impressione che ormai, vista la situazione, all’interno dei due schieramenti, del Sì e del No, si stiano formando due fazioni trasversali. Una spingerebbe per andare al voto subito, il 4 dicembre, comunque vada, mentre l’altra, che si ritiene in svantaggio, preferirebbe attendere tempi migliori. Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, tanto per restare a Firenze dove, da sempre, di queste cose ce ne si intende. E questo porta ulteriore confusione. Peccato che a farne le spese sia la libertà di ogni elettore di decidere.
Ipotizziamo per un attimo il rinvio del referendum. Nel frattempo la costituzione vigente avrebbe da guadagnarci o no?
Direi di no; perché si creerebbe un ulteriore periodo di incertezza in cui si fa passare l’idea che la costituzione del 1948 è sub iudice e quindi è già cosa del passato. Nel frattempo si lavora pancia a terra per guadagnare consenso a quella nuova. Dopo un certo periodo di transizione, modificarla diventerebbe quasi una necessità. Come dire: basta vivere nell’incertezza, votiamo sì ed usciamo da questa situazione ridicola.
La questione dello spacchettamento è davanti a diversi giudici. Cosa può accadere?
Fermo restando che, da un punto di vista giuridico, la questione è tutt’altro che peregrina, ed ha solide fondamenta nella giurisprudenza della Corte, le ipotesi astratte sono tre. Il giudice, che sia il Tar Lazio o il Tribunale di Milano, può trovare una ragione processuale per eludere il merito della questione e chiuderla lì. Oppure, seconda ipotesi, può dire che la questione è manifestamente infondata; ma è difficile che questo accada. Infine, terza ipotesi, può rinviare la questione alla Corte costituzionale. Tenga conto, però, che in questo caso il rinvio del Tar o del Tribunale di Milano sospenderebbe solo il processo ma non il referendum. In tal caso il giudice che rimettesse la questione alla Corte si libererebbe del problema e metterebbe tutto nelle mani della Corte e del Governo. Il quale dovrebbe porsi il problema di fare un referendum su cui pende una questione di costituzionalità.
Nei primi due casi?
Nei primi due casi la cosa finisce in niente. E intanto che decorrono i tempi per riproporre la questione in altra sede, il referendum si fa e tutta la questione diventa accademica. Ma è possibile anche un rinvio che, per qualche ragione, sposti tutto innanzi nel tempo, a ridosso del 4 dicembre, quando un rinvio alla Corte sarebbe sostanzialmente inutile. Teniamo conto che è una questione molto delicata e il battage pubblicitario degli ultimi giorni ha avuto l’effetto di sovraccaricare politicamente una vicenda che, a rigore, dovrebbe essere solo processuale. L’interferenza tra vicenda processuale e battage mediatico è spesso una strategia nei processi penali. Non so quanto bene possa fare in situazioni come queste. E a chi.
Una vera e propria telefonata pubblica alla Corte costituzionale.
E’ lei il giornalista…
(Federico Ferraù)