C’è ancora spazio per produrre auto di massa in un Paese come l’Italia? O dobbiamo rassegnarci a veder emigrare la produzione a quattro ruote salvo il segmento lusso? Per tentare una risposta facciamo un passo indietro di due anni. Nell’ottobre del 2010 la crisi dell’auto, pur meno violenta di oggi, si faceva già sentire. Ma in Italia il progetto Fabbrica Italia era ancora d’attualità. Anzi, attorno al piano che prevedeva di far balzare la produzione nostrana da 900 mila vetture a 1,4 milioni annui entro il 2014, si combattevano aspre battaglie sindacali. La Fiat aveva strappato, con qualche difficoltà, il sì ai dipendenti di Pomigliano e si avvicinava a larghe falcate allo scontro frontale di Mirafiori segnato da aspre divisioni sindacali.
Negli stessi giorni, nelle Midlands britanniche, il sindacato dell’auto era chiamato a una scelta ben più impegnativa della posta in palio a Mirafiori. La direzione di Jaguar Land Rover, controllata dall’indiana Tata Motors, aveva fatto sapere che c’era uno stabilimento di troppo tra Castle Bromwich nelle West Midlands e Solihull, altro impianto in una zona depressa del nord. Non solo. Il management non aveva fatto mistero di aver in mente altri progetti per ridurre i costi a partire dallo spostamento in India di parte delle produzioni.
Davanti a questa prospettiva, le Unions, dopo una lunga trattativa, siglarono quest’accordo: di fronte all’impegno a tener aperti entrambi gli stabilimenti, i sindacati di Jaguar avrebbero accettato salari differenziati per i nuovi assunti che, per il primo anno, si sarebbero accontentati del 70% del salario degli anziani per poi salire, una volta confermati, al 90%. La ricetta, almeno per ora, ha funzionato. Land Rover, unica tra le case a quattro ruote europee, ha annunciato numeri in forte crescita (+48% le vendite di agosto) grazie anche alla penetrazione sui mercati extra Ue. L’azienda ha messo in cantiere 8 mila assunzioni e investito, nel biennio, 5 miliardi di sterline.
Insomma, una storia a lieto fine. O no? A nutrire qualche dubbio è Tony Woodley, il leader del sindacato Unite, protagonista dell’accordo di due anni fa, che oggi rilancia un piano ancor più ambizioso: ci vuole un accordo a lungo termine in cui, da una parte i lavoratori si impegnino a garantire la competitività delle fabbriche inglesi; dall’altra Tata Motors garantisca il mantenimento della produzione nei tre stabilimenti del Regno Unito almeno fino al 2018. In sostanza, la trattativa iniziata il 9 settembre, quando in Italia stava per scoppiare il bubbone della chiusura del cantiere di Fabbrica Italia, ha per oggetto l’accettazione di condizioni simili a quelle garantite dal sindacato a Gm per l’impianto di Ellesmere, Galles, dove il gruppo Usa ha trasferito la produzione della Opel Astra dalla Germania.
In estrema sintesi: impianti aperti 51 settimane all’anno; tre turni di lavoro; sabato lavorativo su richiesta dell’azienda; una componente salariale variabile agganciata ai risultati di produzione. In cambio di queste condizioni di lavoro “asiatiche” in Gm sono stati difesi i posti di lavoro esistenti e se ne sono creati di nuovi. Ora, in Jaguar, le Unions sono pronte a rilanciare, con qualche variante: Unite chiede che decada la distinzione di salario tra vecchie giovani e che la paga sia la stessa nei tre impianti del gruppo. Ma, soprattutto, vuole la garanzia che mister Tata non decida di spostare altrove la produzione di vetture i cui mercati principali, sia per quanto riguarda Jaguar che Land Rover, sono ormai ben lontani dal Regno Unito. Preoccupazione legittima, visto che Tata Motors sta costruendo fabbriche in Cina e in Brasile e non esclude un nuovo stabilimento in Arabia Saudita.
Inevitabile, a questo punto, un parallelo con quel che è avvenuto nel Bel Paese. Il conflitto sindacale inglese, pur aspro, ha portato a un accordo rispettato da tutte le parti. Il duello italiano ha provocato, come prevedibile, una lunga coda giudiziaria: si sono prodotti più ricorsi che automobili, si potrebbe dire con un paradosso. Intanto il Regno Unito, dove ha sede tra l’altro l’impianto più competitivo di Nissan a livello mondiale (a Sunderland si sfornano 700 mila pezzi in un anno), produce ormai un milione e mezzo di macchine all’anno, tre volte tanto dell’Italia. E poco conta che, in pratica, nessuna delle 12 aziende che operano oltre Manica sia a maggioranza inglese: il mercato è aperto a tutti, a conferma che la concorrenza può far miracoli.
Nel frattempo la Fiat ha sviluppato la sua strategia a tutto campo, a livello globale. Non è affatto vero, come ci si ostina a ripetere, che l’azienda “non ha modelli” o che “non investe”. Al contrario, tanto per limitarci a quanto successo nell’ultimo mese, Sergio Marchionne ha annunciato ai dealers di Chrysler il lancio di 66 nuovi modelli entro il 2014; a Shangai è stata presentata la Viaggio, l’auto destinata alla middle class cinese; lunedì scorso ha preso il via la costruzione della nuova fabbrica brasiliana di Fiat in quel di Pernambuco, 250 mila vetture all’anno, che si affiancherà allo stabilimento di Betim, il più importante del gruppo Fiat a livello mondiale.
Di fronte a quest’offensiva sarebbe logico attendersi dal mondo del lavoro un’inquietudine almeno pari a quella delle Unions britanniche. Al contrario, finora ci si è limitati a rassegnarsi al fatto che “è la globalizzazione, bellezza”, quasi un fenomeno naturale contro cui non resta che allargare le braccia: mica si può competere con il costo del lavoro cinese, brasiliano o serbo. Ma il costo del lavoro è solo uno dei fattori di competitività. Oggi più di ieri, e probabilmente meno di domani visto che si profila, grazie alle nanotecnologie e ai processi di produzione basati sulle tecnologie 3 D, un nuovo modo di produrre su piccola scala, in ambienti più ridotti, magari in centro città.
In questa cornice conta sempre di più la flessibilità che comporta elasticità nell’impiego della forza lavoro, ma anche di altri fattori ove un Paese efficiente, dotato di servizi che funzionano, di un’amministrazione efficiente e di una giustizia in grado di tutelare l’attività produttiva, può risultare più attraente di altri. È il caso della Svezia, ove non c’è stata la temuta migrazione di Volvo dopo il passaggio di proprietà ai cinesi di Geely. Al contrario, la presenza di una base produttiva in un Paese scandinavo, tra l’altro molto attento a tutelare il futuro del manufacturing (come dimostrano le ultime mosse di politica economica) , è un asso nella manica importante per garantire a Geely una maggior forza sul mercato cinese.
Si può, per rispondere alla domanda iniziale, immaginare un futuro produttivo per l’auto in Italia. Purché i protagonisti s’impegnino a rispondere a un’altra domanda: cosa bisogna fare per rendere competitiva un’auto (che sia Fiat o Volkswagen poco importa) prodotta dalle nostre parti? È materia di riflessione per il sindacato, per la pubblica amministrazione, per la politica. E, perché no, per la cultura così attenta ai “diritti”, ma di pelle ostile al manufacturing di cui si parla solo per denunciarne i “misfatti”, salvo quando le fabbriche chiudono i battenti.
Ce n’è pure per la Fiat, per carità. Ma attenti a ripetere la litania di “tutto quel che l’Italia ha fatto per la Fiat”. Tra pochi mesi Fiat/Chrysler sarà una realtà unica, con un azionariato che, per due terzi, farà riferimento a investitori internazionali, una sede legale in Olanda (o Londra), Wall Street come Borsa di riferimento e l’80% degli investimenti produttivi (se non di più) fuori dal Bel Paese. Non sarà facile per Marchionne, anche se lo volesse (e non lo vuole) guardare all’Italia con un occhio di riguardo.
A meno che il ceo non possa dire di nuovo, come ai tempi di Cesare Romiti (oggi pentito) ai suoi azionisti: “Ragazzi, i soldi che ci passa l’Italia, in chiaro e sottobanco, non ce li dà nessun altro”. Ma sarebbe un bel guaio.