Restituire una sterlina è un problema del debitore, restituirne un milione è un problema del creditore. La frase è attribuita a Edward Lloyd, il gestore di una caffetteria diventata la prima assicurazione del mondo. In Europa (meglio, nell’Europa che usa l’euro) i danari non restituiti alle banche ammontano a 990 miliardi, il 6,7% del Pil europeo. Di questi, circa 240 sono in Italia, che a fine 2016 registrava quasi il 18% del credito bancario in sofferenza (in Italia gli Npl si chiamano così). Una sofferenza non è una qualunque mancata restituzione, ma quella classificata come tale dopo un rigoroso processo valutativo che attesta, fondamentalmente, la strutturale incapacità del cliente a quel rimborso. Ci sono altri livelli di incertezza nella restituzione, ultimamente denominati unlikely to pay.
I crediti per una banca sono la voce principale del proprio attivo per cui quanto più è compromessa la restituzione, tanto più vacilla e si riduce il proprio attivo. La Bce a marzo ha rilasciato le linee guida su come gestire questi crediti. Oggi in un Addendum rende nota l’intenzione di applicare un principio uniforme in Europa per cui il valore in bilancio di questi crediti verrebbe azzerato dopo 2-3 anni per quelli ordinari, dopo 7 per quelli garantiti. Tutto molto coerente col disegno di costruire un sistema bancario unico e solido, capace di reggere gli scossoni (o gli assalti) che subisce un continente anagraficamente vecchio, politicamente in crisi e molto ingolfato nel disegnare una prospettiva di welfare e di crescita sostenibili.
L’unione bancaria sta all’Europa come la struttura antisismica a una casa. La qualità della vita e la felicità in quella casa sono un’altra faccenda. Perciò la levata di scudi di Vincenzo Boccia, Antonio Patuelli, Pier Carlo Padoan, il sig. Renzi in cerca d’autore e molti altri è sciocca e drammatica. Intanto la direttiva si applicherà solo alle future sofferenze, non al macigno già esistente. Poi l’effetto finale della direttiva in questione discenderà comunque dal IFRS9, il principio contabile internazionale che sostituisce lo IAS39, riformato dopo la bomba finanziaria del 2008, che entra anch’esso in vigore nel 2018. Ma quest’ultimo prevede una gradualità, dirà qualcuno, ci si può lavorare e poi 1,3 miliardi di gravame sulle banche proprio mentre si tenta una ripresa sono una sciagura.
Questo è l’aspetto drammatico. Ritenere questa misura come “antitetica alla politica monetaria espansiva della Bce” e foriera di un nuovo credit crunch significa non aver capito nulla del “miracolo” di Mario Draghi (il Quantitative easing), sotto il profilo politico ed economico, e aver sciupato completamente questi anni. Le politiche del credito non c’entrano con le regole sul patrimonio.
L’offerta di credito, come di qualunque prodotto, dipende dalle scelte di market target, dall’analisi dei rischi, dall’aspettativa di remunerazione dei soci, dalla sostenibilità del progetto industriale, dall’innovazione di prodotto, di servizio e di filiera produttiva. Chi contesta la direttiva esprime il più alto livello del Paese e sta comunicando cose tremende. Che il trend delle sofferenze è destinato a continuare. Che abbiamo ormai deposto le armi sulle cause di tutto questo e cioè un sistema giudiziario che ci qualifica come Quarto Mondo e un sistema produttivo che continua a dipendere in larga misura (e più di qualunque altra nazione) dalle banche. Il che attesta o la sua natura pericolosamente infantile e quindi incapace di reggere i tempi, o la sua volontà delinquenziale.
Perciò l’unico difetto dell’Addendum alla Direttiva è che non risolve il problema di questa classe dirigente, che andrebbe azzerata per sempre e ben prima di due anni. Come la peggiore Sofferenza.