Quando nel corso dell’ultima direzione del Partito democratico, il nuovo e giovane segretario, Matteo Renzi, scandisce polemicamente che la politica senza azione è solo “chiacchiera da bar sport”, afferma solo una ovvietà. Forse l’affermazione può apparire forte e quasi dissacrante in un Paese che appare paralizzato dai bizantinismi di discorsi quasi incomprensibili e che sembrano la perfetta fotografia dei bizantinismi della burocrazia statale. Ma basta addentrasi solo di poco nella storia, anche in un “bigino” di storia, per comprendere che “pensiero e azione” stanno alla base della politica e, senza l’uno o senza l’altra, ci si trova di fronte a uomini politici inconsistenti o dimezzati.
C’è poi in Renzi un linguaggio veloce, in sintonia con i nuovi media, condito da affondi polemici e ponderatamente aggressivi, che modificano un poco, ma non di molto, il “politicamente corretto” dei tempi che stiamo vivendo. In fondo, anche il termine “rottamazione” può entrare benissimo nella neo-lingua della politica moderna post-ideologica. Infine, per delineare brevemente il personaggio balzato alla ribalta in questi due ultimi anni, i rilievi fatti al presidente del partito, Gianni Cuperlo, sembra di più una “litigata” quasi “familiare” piuttosto che un vero e proprio scontro politico, dove solo il ricordo di comportamenti passati assume una rilevanza di linea politica contrapposta. In realtà alla fine, le dimissioni di Cuperlo sembrano la reazione di un “musone” per uno sgarbo personale, uno scatto di nervi, non la risposta di un leader politico. Per chi è stato abituato alla vita di sezione nei partiti della vecchia sinistra italiana e a vedere scontri durissimi nel comitati centrali dell’ex Pci e dell’ex Psi, lo scontro tra Renzi e Cuperlo è apparso come una sorta di “scazzo alla camomilla”. Tuttavia nella “palude” della politica italiana, con un Paese disilluso e alla ricerca disperata di una leadership e di nuovi leader politici, è bastata la svelta parlantina fiorentina di Matteo Renzi per fare paragoni e rispolverare il termine “decisionista”, da non confondere con quello di “decisore”, che era caro al professor Gianfranco Miglio, studioso appassionato di Carl Schmitt.
Per farla breve, Renzi è apparso ad alcuni come un “nuovo Craxi” che è entrato a gamba tesa sulla scena della politica italiana. Così Gad Lerner, con una delle sue trovate, ha coniato (poi scusandosi, perché Lerner non ama Craxi) in un “Bettino Renzi”, dove ha paragonato anche lo stato del Psi nel 1976, con una opposizione interna debole e disarmata di fronte a Craxi, a quella del Pd nei confronti di Renzi. Anche Claudio Martelli, che di Craxi fu per lungo tempo il “luogotenente”, in una intervista ha detto: “A noi socialisti Renzi piace per lo spirito un po’ guascone, ma soprattutto perché sfida dei tabù e lo fa non per capriccio ma per dar vita a una nuova sinistra di governo”.
E come Craxi nel Psi, continua Martelli, “è l’unico ad aver sfidato l’apparato di Botteghe Oscure prima a Firenze e poi a livello nazionale. E ha vinto”. Martelli però, nel suo paragone, pare che si soffermi soprattutto sullo “stile” del momento di Renzi, più che sulla sostanza futura. Alla domanda sulle differenze sostanziali tra il nuovo leader del Pd e l’ex leader socialista, Martelli risponde: “Craxi aveva una visione internazionale, mentre con Renzi tutto sembra un po’ superficiale e modaiolo. Cosa vuole, sono questi i tempi che corrono…”.
I paragoni, notoriamente, sono sempre rischiosi, in ogni campo. E poi ci sono alcune visioni personali, interessate, che non tengono conto della realtà e dell’oggettività. Per concederci solo una distrazione momentanea, potremmo ricordare che un ex direttore della Gazzetta dello Sport paragonava Totò Schillaci a Marco Van Basten, preferendo sorprendentemente il primo. Non è questo tuttavia il caso da approfondire, perché bisognerebbe sconfinare necessariamente nella psicanalisi. Il nocciolo della questione ci pare invece il “contesto” in cui si muoveva il vecchio “decisionista”, Craxi, e il nuovo “decisionista”, Renzi. Quando il leader socialista diventò segretario del Psi nel 1976, non si poteva neppure pronunciare la parola “riformista”, perché era un termine visto come disvalore nella sinistra italiana e i socialisti erano, di nuovo, una sorta di succursale del Pci, dove il segretario Francesco De Martino andava in televisione a chiedere voti per la sinistra, indifferentemente per quella comunista o socialista.
C’era la “guerra fredda” e in Italia il più forte partito comunista d’Occidente, nato dalla scissione di Livorno nel 1921, aveva rotto storicamente con il riformismo di Filippo Turati. Ancora al congresso di Palermo del Psi, nel 1981, Craxi dovette superare anche le infinite perplessità di un ex azionista come Riccardo Lombardi per poter fondare la corrente “riformista” all’interno di quello che era il partito di Turati. Ecco, in quegli anni a cavallo tra Settanta e Ottanta del secolo scorso, dichiararsi “riformisti” era una scelta “politicamente scorretta” nel modo più autentico. Il Pci sfiorava elettoralmente il sorpasso alla Dc e varava il “compromesso storico”, mentre l’Urss era ufficialmente una “potenza al servizio della pace”. Decidere di rompere, stando nella sinistra “riformista”, con quella soffocante “cappa” di conformismo filocomunista o catto-comunista, di affiancamento o di rassegnazione a inevitabili accordi, fu un’azione, con tutta probabilità, un po’ più consistente che incontrare nella sede del nuovo Pd (adesso diventato tutto riformista) il “pregiudicato” Silvio Berlusconi, per trovare un accordo realistico sulla riforma elettorale. Tutti vivono la propria epoca, per legge naturale s’intende, e quindi non tutti possono dimostrare il loro “decisionismo”, che magari è prorompente.
E’ proprio per questo che i paragoni sono piuttosto complicati. Del resto, il “contesto” di un grande scontro ideale, tra mondi contrapposti e in “guerra fredda” tra loro, quale era quello che viveva Craxi, non è possibile adattarlo a quello attuale, dove c’è una “cappa” di pensiero neo-liberista globale, che indubbiamente porta a una sorta di pensiero unico, che si deve solo amministrare nel modo più manageriale possibile e secondo lo schema della comunicazione moderna. Il vero problema di Matteo Renzi sarebbe di diventare un “decisionista”, rompendo questa ”cappa” globale, non facendo solo battute sul “Fassina, chi?” e ricordando sempre al suo partito che è diventato segretario con primarie a cui hanno partecipato milioni di elettori. In questo paragone che, francamente, al momento sembra improprio, affiora però una sorprendente curiosità. Perché andare a scomodare proprio Bettino Craxi, in questo momento? Perché fare paragoni tra “l’uomo nero” della cosiddetta “prima repubblica” e il più popolare, al momento, leader della non ancora nata “terza repubblica”? Interessate o meno, usate per attaccare o per sostenere, non è che è scattata, in questa esasperante ricerca di un leader, una specie di “operazione nostalgia”?